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L’uomo era troppo scioccato per rispondere. Intrecciò le mani, poi le sciolse e si lisciò la veste. Alla fine disse. — Sì… sì. Sono un missionario. Vengo dalla Terra.

— Anche lei ha subito l’intervento di adattamento, allora.

— Sì.

— Anch’io. Io sono Nicholas Martell. Come vanno le cose a Santa Fe, fratello?

Il vorsteriano contrasse le labbra. Era un omino tutto pelle e ossa, di un anno o due più giovane di Martell. — Che cosa gliene può importare, se è davvero Martell? Martell l’eretico? Martell il rinnegato?

— No! — esclamò Martell. — Cioè… io…

Ma non trovò le parole per concludere la frase. Continuava a lisciarsi nervosamente la stoffa della veste. Si sentiva il volto in fiamme. Poi, con dolore, capì: il cambiamento, da meramente esteriore, era diventato interiore, profondo. All’improvviso, non fu più in grado di reggere lo sguardo del missionario che era stato inviato per prendere il suo posto e, voltando la testa, fissò i fitti alberi di quella foresta non più tanto aliena.

QUATTRO

2152

Lazzaro vieni fuori

uno

La Monorotaia Uno di Marte correva da est a ovest, abbracciando, come una cintura di cemento, l’emisfero occidentale del pianeta. A nord c’era il Lago District, circondato da campi fertili; verso sud, vicino all’equatore sorgeva la grande catena delle stazioni di compressori, responsabili in larga misura, di quello straordinario miracolo. L’occhio esperto era ancora in grado di individuare i vecchi crateri e le coppe dell’antico suolo di Marte, nascosti ora da una spolverata di erba e da qualche foresta di conifere.

I piloni di cemento grigio della monorotaia marciavano come soldati verso l’orizzonte. Svariati raccordi collegavano la linea principale con gli insediamenti delle regioni più remote e, a mano a mano che aumentavano gli insediamenti, venivano costruiti nuovi raccordi. Da un punto di vista logistico sarebbe stato di gran lunga più semplice se tutti i marziani fossero stati concentrati in Una Sola Grande Città, ma a loro non si confaceva quel genere di vita.

In quel periodo stavano realizzando il raccordo 7Y, che avanzava a grandi balzi, di sgradevolissimo effetto estetico, verso il recente avamposto dei Laghi Beltran. Avevano già scavato le fondamenta dei piloni, che avrebbero sorretto tre-quarti della gittata che avrebbe collegato la Mono Uno al nuovo centro abitato; un enorme erigi-piloni avanzava nell’ampia vallata, divorando sabbia che poi sputava fuori sotto forma di lastre di cemento, che accatastava sul terreno. Divorava, sputava, accatastava e avanzava, divorava, sputava, accatastava e avanzava. La macchina si muoveva rapidamente, guidata da un cervello omeostatico che la manteneva sulla giusta traiettoria. La seguivano altre macchine, che gettavano l’asfalto fra i piloni e stendevano le linee elettriche, telefoniche, e così via, che avrebbero seguito quello stesso percorso. I coloni disponevano di svariate tecnologie d’avanguardia, ma fra queste non figurava, ancora, la trasmissione a microonde dell’energia elettrica, cosicché le linee dovevano essere tirate da un posto all’altro, come nel Medio Evo.

Il sistema di monorotaia era stato concepito per il trasporto pesante. Per spostarsi da un luogo all’altro anche i marziani, come tutti, utilizzavano le barcheceleri; ma quei veicoli, agili e di piccole dimensioni, non si prestavano al trasporto di grandi quantità di materiale da costruzione e Marte era un pianeta in fase di costruzione. Adesso che la fase di ricostruzione era terminata e i terrestrizzatori se ne erano andati. Nell’anno di grazia 2152, il territorio di Marte era coperto da valli boscóse, nelle quali, grazie a condizioni di vita finalmente ospitali, poteva ora fiorire una civiltà. I marziani erano milioni, ormai. Dopo decenni di vita di frontiera, adesso potevano insediarsi nelle varie regioni e godere dei benefici di un promettente boom economico. Contemporaneamente, chilometro dopo chilometro, avanzava la monorotaia, che costeggiava i mari, i laghi e i fiumi.

Il lavoro pesante veniva svolto da macchine intelligenti, ma controllate dagli uomini, il cui compito era quello di evitare ogni minimo scarto nell’omeostasi del cervello che le guidava. Alcuni anni prima, infatti, era accaduto che, a causa di un guasto dei relè d’arresto, prima che chiunque potesse accorgersene, una macchina avesse gettato piloni per un tratto di venticinque chilometri attraverso il Lago Holliman… ma a ventiquattro metri di profondità! I marziani detestavano gli sprechi. Quell’esperienza aveva insegnato loro che le macchine non erano affidabili al cento per cento e, da allora, avevano deciso di tenerle sotto controllo, così come i cani da pastore governano i greggi.

Incaricati di seguire i lavori di quel particolare raccordo della Monorotaia Uno erano due uomini: il primo, un sessantenne asciutto, abbronzato, di nome Paul Weiner, godeva di buoni agganci politici; non così il secondo, un tipo grassottello, di pelo rosso, di nome Hadley Donovan. Le persone con la pelle chiara e i capelli rossi erano rare su Marte, per le solite ragioni statistiche; anche gli uomini grassottelli erano rari, me meno di un tempo. In quegli anni, le condizioni di vita erano meno dure sul pianeta, e i giovani marziani avevano abitudini meno spartane. Hadley Donovan trovava ridicoli gli usi dei più anziani, che portavano le armi, rispettavano rigorosi cerimoniali, si sottoponevano a una severa disciplina e si ritenevano tanto importanti. Forse, all’epoca dei pionieri, quegli atteggiamenti avevano un significato, pensava Donovan, ma ormai erano trascorsi trent’anni da allora. E così, lui si era concesso il lusso di un po’ di pancetta. Sapeva che Paul Weiner lo disprezzava per questo.

E lui lo ricambiava cordialmente.

I due uomini sedevano l’uno accanto all’altro a bordo di un cingolo, che avanzava sul terreno accidentato, precedendo di una ventina di metri la macchina erigi-piloni. A intervalli regolari, i trasponditori emettevano segnali sonori; sul pannello di controllo, i colori andavano e venivano in ondate evanescenti. In teoria, il compito di Weiner era quello di monitorare la gittata dei piloni, mentre Donovan doveva controllare il percorso che avrebbe dovuto seguire la ferrovia, alla ricerca di eventuali sacche di terreno soffice immediatamente sopra il sottosuolo, che la erigi-piloni non sarebbe stata in grado di valutare. Invece, Hadley Donovan cercava di occuparsi di entrambe le cose contemporaneamente. Preferiva non lasciare responsabilità operative a un tipo come Weiner, che aveva ottenuto quel posto soltanto grazie a una raccomandazione politica. Weiner era nipote di Nat Weiner, uno dei membri più influenti dei consigli governativi, il quale, raggiunta la veneranda età di cento e rotti anni, ogni tanto andava sulla Terra per farsi sostituire il pancreas, i reni o qualche arteria con organi artificiali. Probabilmente, sarebbe vissuto per sempre, ma, nel dubbio, stava provvedendo a sistemare nell’ambito dell’impiego pubblico, tutti i membri della sua famiglia. Impegnato a svolgere un lavoro che avrebbe richiesto l’attenzione costante di due persone, Donovan provava un vago senso di disperazione. Ogni trenta secondi, i suoi occhi, sgranati sul suo pannello di controllo, correvano a controllare furtivamente quello del suo vicino.

Una luce rossa, accesasi improvvisamente sullo Schermo delle Anomalie di Weiner, attrasse la sua attenzione, ma in quel momento era troppo preso dalla sua parte di lavoro per occuparsene. Weiner, però, non gli diede tregua e, con la sua parlata lenta e strascicata, disse: — Ho qualcosa di strano, qui, Donovan. Che cosa ne pensa libero cittadino?

Donovan fermò il cingolo con un calcio e studiò il pannello. — Sembrerebbe una specie di caverna sotterranea. A cinque o sei chilometri dal percorso della monorotaia.

— Pensa che dovremmo andare a darle un’occhiata?