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Pensò di andare in chiesa a pregare. Ma a che prò? Perché inginocchiarsi di fronte al Fuoco Azzurro? Gli bastava andare da Vorst se voleva una benedizione… Vorst, il suo maestro e la sua guida per quasi ottant’anni, Vorst che riusciva a farlo sentire tranquillo come un bambino, Vorst che aveva resuscitato Lazzaro dai morti.

CINQUE

2162

Violare il cielo

uno

La sala operatoria era una stanza gelida, fatta a ferro di cavallo, illuminata da una pallida luce violetta. Dalle finestre della parete nord, che si aprivano a livello della seconda galleria, filtrava la fredda luce del sole del Nuovo Messico. Dalla galleria, affacciata sulla sala, proprio sopra il tavolo operatorio, Noel Vorst vedeva le montagne bluastre che si stagliavano oltre le mura della cittadella del centro di ricerca. Ma a lui le montagne non interessavano. Non gli interessava nemmeno quello che stava accadendo sul tavolo operatorio. Ma tenne quelle considerazioni per sé.

Vorst non avrebbe avuto alcun bisogno di assistere all’intervento di persona. Sapeva già che difficilmente avrebbe avuto esito positivo e anche gli altri lo sapevano. Ma il Fondatore aveva 144 anni e riteneva opportuno apparire in pubblico il più possibile, finché le forze glielo consentivano. Non era bene che la gente pensasse che stesse invecchiando.

Sotto di lui, i chirurghi erano chini sul cranio aperto di un ragazzo. Vorst li aveva visti asportare la calotta cranica ed affondare i bisturi luminosi nell’intricata massa grigia. C’erano dieci miliardi di neuroni in quel tessuto e un’infinità di cilindrassi e di ricettori dendritici. I chirurghi speravano di riuscire a riordinare, modificando l’interruttore proteino-molecolare, la rete di sinapsi di quel cervello, allo scopo di sfruttare il paziente per realizzare il progetto di Vorst.

Una follia, pensò il Fondatore. Ma non diede voce al suo pessimismo e rimase seduto in silenzio ad ascoltare il battito del sangue che scorreva nelle sue arterie artificiali.

L’impresa in cui si stavano cimentando gli scienziati era davvero ragguardevole. Facendo appello a tutte le risorse della microchirurgia moderna, i più esperti medici del Centro di Scienze Biologiche Noel Vorst stavano tentando di alterare i meccanismi di riconoscimento proteino-proteino-molecolare di un encefalo umano. Gli scienziati attorcigliarono un po’ i circuiti, modificarono le strutture transinaptiche, rafforzarono il legame fra le membrane pre e postsinaptiche; deviarono gli input sinaptici individuali da un recettore dendritico all’altro: in breve, riprogrammarono il cervello del paziente nella speranza di metterlo in condizione di fare ciò che Noel Vorst voleva che facesse.

E cioè fornire la forza propulsiva necessaria per scagliare un’équipe di esploratori oltre l’abisso degli anni luce e farli atterrare su un altro astro.

Era un progetto straordinario. Gli scienziati del centro di ricerca di Santa Fe ci stavano lavorando da oltre cinquant’anni. Nelle prime fasi della sperimentazione avevano utilizzato il cervello di gatti, scimmie e delfini. Più recentemente avevano incominciato a intervenire direttamente sugli esseri umani. Il paziente che stavano operando era un esperiano di medio livello, un preveggente con scarse doti di stabilità temporale. Gli restavano sei mesi di vita o poco più, una prognosi che giustificava gli alti rischi che comportava il delicato intervento. Era stato lui stesso, consapevole delle proprie condizioni di salute, a offrirsi volontario. In quel momento si trovava nelle mani dei più abili chirurghi del mondo.

C’erano soltanto due cose che non andavano in quell’intervento e Vorst lo sapeva: non aveva alcuna probabilità di successo e, soprattutto, non era affatto necessario.

Ma come poteva dire a un gruppo di uomini che avevano consacrato tutta la loro esistenza a un solo, ambizioso progetto, che avevano tanto faticato per niente? E poi c’era pur sempre l’esile speranza che riuscissero a compiere il miracolo: a creare con il loro bisturi un terrestre dotato di poteri telecinetici. Così Vorst assistette rispettosamente all’operazione. I chirurghi sapevano che la divina presenza del Fondatore era con loro. Pur senza levare lo sguardo verso la galleria, dove Vorst sedeva, adagiato nella sua poltrona antigravitazionale di telaschiuma, sapevano che il vecchio uomo, avvizzito, ma ancora pieno di vigore, stava sorridendo benignamente verso di loro.

I suoi occhi vedevano grazie a cristallini sintetici; le anse del suo intestino erano state ricostruite con polimeri realizzati in laboratorio; il suo cuore, che ancora pompava con tanta forza, proveniva da una banca d’organi. Restava poco dell’autentico Noel Vorst, a eccezione del cervello, che era intatto, anche se inondato di anti-coagulanti, per prevenire il verificarsi di malattie invalidanti.

— Siete comodo, signore? — gli domandò il pallido accolito al suo fianco.

— Comodissimo. E tu?

L’accolito sorrise alla battuta di Vorst. Aveva soltanto vent’anni e i suoi occhi brillavano per l’orgoglio di avere, per quel giorno, il privilegio di accompagnare il Fondatore. A Vorst piaceva essere circondato da persone giovani. Avevano una terribile soggezione di lui, ovviamente, ma sapevano trattarlo con calore e rispetto, senza venerarlo come un santo. Nel suo corpo pulsava la vita di molti giovani vorsteriani: quella del ragazzo che gli aveva donato una pellicola di tessuto polmonare, quella di un altro volontario che gli aveva fatto dono della retina, e quella dei due gemelli che avevano rinunciato a un rene ciascuno. Più che un uomo era un collage di organi umani, che portava su di sé la carne viva del movimento che aveva creato.

I chirurghi erano chini sul cervello dell’esperiano. Vorst non vedeva che cosa stessero facendo. Una telecamera, avvolta da un telo chirurgico, trasmetteva le riprese dell’intervento su uno schermo posto a livello della galleria, ma, nonostante le immagini fossero ingrandite e molto nitide, Vorst non riusciva a capirci un gran che. Tuttavia, benché perplesso e annoiato, il Fondatore fingeva un’espressione interessata.

Senza far rumore spinse una levetta sul bracciolo della sedia e accese il comunicatore. — Sapete se il Coordinatore Kirby abbia intenzione di raggiungermi presto? — domandò

— In questo momento sta parlando con Venere, signore.

— Con chi sta parlando, con Lazzaro o con Mondschein?

— Con Mondschein, signore. Gli dirò di raggiungervi non appena ha finito.

Vorst sorrise. Il protocollo prevedeva che i negoziati ad alto livello venissero condotti dai massimi funzionari delle due parti e non dai profeti. Pertanto, erano stati i due comandanti in seconda ad avviare le trattative: il Coordinatore dell’Emisfero, Reynolds Kirby, in rappresentanza dei vorsteriani della Terra, e Christopher Mondschein per gli armonisti, che governavano Venere. Ma entro breve, sarebbe toccato alle due persone maggiormente in sintonia con l’Eterna Unità concludere l’accordo, ossia Vorst e Lazzaro.

…concludere l’accordo…

Un tremito improvviso gli fece contrarre la mano destra, che si serrò ad artiglio. L’accolito provvide immediatamente a pigiare alcuni bottoni per ripristinare l’equilibrio metabolico. Cupo in volto, il Fondatore ordinò alla mano di rilassarsi.

— Sto bene — insistette. …violare il cielo…

La realizzazione del suo progetto era così prossima ormai che tutto cominciava ad apparirgli come in un sogno. Un secolo di cospirazioni, di partite a scacchi con antagonisti non nati, l’edificio fantastico di una teocrazia costruito su un’unica, fragile, presuntuosa speranza…