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— Vorst ci offre la possibilità di farli curare nel suo centro di Santa Fe.

— Un’altra cosa importante — osservò Mondschein. — Questo nuovo accordo prevede che anche noi potremmo avere accesso agli ospedali vorsteriani. È un discorso puramente egoistico, lo riconosco, ma questa idea mi alletta molto. Penso che sia arrivato il momento di mettere da parte la nostra alterigia e di accettare la proposta di Vorst. Ha voglia di andarsene. Tanto meglio per noi. Che vada pure, noi cercheremo di concludere un accordo vantaggioso con Kirby.

Lazzaro sorrise. Non sperava di ottenere l’appoggio di Modschein così facilmente. Ma Mondschein, era vecchio, aveva superato la novantina, e non vedeva l’ora di ricevere dagli scienziati vorsteriani tutte le cure di cui non aveva potuto usufruire su Venere. Mondschein aveva visitato gli ospedali di Santa Fe da giovane e sapeva di quali miracoli fossero capaci i medici che vi lavoravano. Non si trattava di una motivazione particolarmente valida, pensò Lazzaro, ma, era dettata da una debolezza umana e, dietro le sue branchie e la sua pelle azzurra, anche Mondschein era un uomo. Lo siamo tutti, comprese in quel momento il profeta armonista. Anche se loro non lo sono.

Guardò i ragazzi intenti ad allenarsi. Erano la quintasesta generazione di venusiani. In loro c’era il seme della Terra, ma erano profondamente diversi dai loro antenati. Le manipolazioni genetiche, grazie alle quali i primi uomini sbarcati su Venere erano riusciti ad adattarsi alla vita sul pianeta, si erano perpetuate nella loro progenie e i figli dei figli dei loro figli non avevano quasi più nulla in comune con le creature della Terra. I ragazzi stavano giocando. Per loro non rappresentava più un grande sforzo spostare gli oggetti anche a grande distanza. Erano in grado di spedirsi l’un l’altro da un capo all’altro del pianeta quasi istantaneamente e di scagliare un masso sulla Terra nello spazio di una o due ore. Ciò che non erano capaci di fare, invece, era spostarsi autonomamente, perché avevano bisogno di un fulcro per esercitare il loro potere. Ma questo non costituiva un problema. Non potevano spostarsi da una parte all’altra da soli, ma potevano sempre provvedere aiutandosi reciprocamente.

Lazzaro li osservò: apparivano, sparivano, scagliavano un oggetto, ne sollevavano un altro. Non erano che bambini, ancora incapaci di controllare adeguatamente i loro poteri. Ma quale sarebbe stata la loro forza quando avesse raggiunto la piena maturità?

E quanti di loro sarebbero morti nel tentativo di aiutare l’umanità a varcare i confini del suo mondo?

Un uccello dalle ali a forma di sega, vagamente luminoso contro il cielo cupo di mezzogiorno, sfrecciò diagonalmente proprio sopra il tetto di fronde. Uno dei ragazzi lo vide e, con un sorriso malizioso, lo fece rotolare su se stesso per un chilometro in mezzo alla coltre grigia delle nuvole. Lontano, ma udibile giunse uno strido di rabbia.

— L’affare è fatto — disse Lazzaro. — Noi aiutiamo Vorst e lui si toglie di mezzo. D’accordo?

— D’accordo — rispose prontamente Mondschein.

— D’accordo — mormorò Martell, strusciando i piedi sul muschio grigiastro che inghirlandava il terreno.

— E tu Claude? — domandò Lazzaro.

Emory aggrottò la fronte. Studiò un ragazzo alto e dinoccolato che, di ritorno da una gita in qualche altro continente, si era materializzato a non più di cinque metri dal gruppetto. Il viso lungo e stretto di Emory era scuro per la tensione.

— D’accordo — mugugnò alla fine.

sette

La nave era un obelisco di acciaio al berillio alta mille e cinquecento metri, un’arca di Noè supermoderna da scagliare in mezzo al mare di stelle. Ospitava undici appartamenti, un inquietante computer dalle capacità strabilianti e una raccolta miniaturizzata di tutto quello che valeva la pena salvare di duemila anni di storia sulla Terra.

«Equipaggia la nave come se il sole dovesse esplodere domani mattina e dovessimo salvare tutte le cose più importanti» aveva detto Vorst, affidando l’incarico a Capodimonte.

Capodimonte, che aveva studiato antropologia aveva idee ben precise su ciò che avrebbe dovuto trovare posto sull’arca, ma seppe distinguerle da quelle che intuiva fossero le esigenze di Vorst. Un sotto-comitato di Confratelli aveva iniziato a progettare quella spedizione decenni addietro e il loro progetto era stato rivisto e modificato parecchie volte: così Capodimonte poteva contare sugli studi e sulle valutazioni di altre persone e questo gli era di grande conforto.

Tuttavia, c’erano alcune fondamentali domande delle quali non conosceva la risposta. Non sapeva, per esempio, in che genere di mondo sarebbero atterrati i pionieri. Nessuno lo sapeva. A quella distanza era impossibile immaginare se nel nuovo mondo sarebbe stato possibile condurre una vita simile a quella terrestre.

Gli astronomi avevano individuato centinaia di pianeti sparpagliati in altri sistemi solari. Alcuni venivano a mala pena intercettati dai sensori telescopici; di altri si ipotizzava la posizione in base al calcolo delle orbite stellari. Ma i pianeti esistevano. La domanda era: la loro superficie era abitabile?

All’interno del sistema solare della Terra soltanto un pianeta su nove era abitabile… Se quella stessa proporzione valeva anche per gli altri sistemi, le prospettive per i pionieri non si potevano definire rosee. Gli uomini avevano lavorato per due generazioni per terrestrizzare Marte e per gli undici membri dell’equipaggio sarebbe stato impossibile compiere un’impresa analoga. Per trasformare gli uomini in venusiani, gli scienziati avevano dovuto ricorrere alle più sofisticate tecniche di manipolazione genetica, ma anche quella strada era preclusa agli undici pionieri. La loro unica possibilità di sopravvivenza stava nella speranza di atterrare su un mondo ospitale. In caso contrario la loro missione, anche se tecnicamente riuscita, sarebbe fallita.

Gli esperiani del centro di ricerca di Santa Fe sostenevano che quei mondi esistevano. Avevano scrutato il cielo, proteso le loro menti e preso contatto con pianeti abitabili. Illusione? Inganno? Capodimonte non era in grado di esprimere un giudizio.

Reynolds Kirby, che fin dall’inizio aveva espresso preoccupazione per quel progetto, domandò a Capodimonte: — È vero che non sanno nemmeno quale stella cercheranno di raggiungere?

— Sì, è così. So che gli esperiani hanno individuato alcune emanazioni provenienti da non so dove. Ma non chiedermi come. Così come è stato concepito, il progetto prevede che i nostri indichino la strada e che i venusiani provvedano alla spinta propulsiva che manderà in orbita la nave. In altre parole, noi governiamo il timone e loro spingono.

— Un viaggio verso l’ignoto?

— Sì, verso l’ignoto — riconobbe Capodimonte. — Faranno un buco nel cielo e spingeranno la nave in un oceano di stelle mai solcato dall’uomo. La nave non viaggerà nello spazio, nel senso in cui lo intendiamo noi. Secondo le previsioni, la capsula dovrebbe atterrare sul mondo con il quale gli esperiani sostengono di essersi messi in contatto e da lì ci invieranno un messaggio per dirci dove sono approdati. Il loro messaggio potrà pervernirci fra non meno di una generazione e, nel frattempo, noi avremmo inviato già altre spedizioni. Un viaggio di sola andata verso l’ignoto. E Vorst sarà il primo a intraprenderlo.

Kirby scosse la testa. — È difficile da credere, vero? Ma io sono sicuro che Vorst ce la farà.

— Che cosa intendi dire?

— Vorst ha consultato alcuni esperiani preveggenti. Ebbene, viaggiando nel tempo, loro hanno visto che è già arrivato a destinazione sano e salvo. È per questo che è disposto a fare questo salto nel buio, perché sa già in anticipo che non correrà nessun rischio.