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Una scheggia di vetro, aguzza e minacciosa, sporgeva dal terreno, esattamente là dove Annie aveva detto. Chiunque, camminandovi o cadendovi sopra, si sarebbe gravemente tagliato.

«Mio Dio!» mormorò Vera. Sconvolta, si coprì il viso con le mani, indietreggiando istintivamente. Si sforzò di padroneggiarsi, dicendosi di non perdere la testa. Sii razionale, si esortò. Ragiona. Doveva esserci una qualche spiegazione, proprio come i medici avevano sostenuto. Erano tutte piccole, banali coincidenze. Non era forse così?

Probabilmente Annie faceva un po’ di scena per darsi importanza, per essere al centro dell’attenzione. Magari aveva scorto dalla finestra quel pezzo di vetro. Vera guardò verso casa: il tavolo da picnic impediva assolutamente di notare il vetro. La bambina era rimasta sulla porta del retro a osservarla, evidentemente sconvolta. Per un attimo Vera scordò le proprie supposizioni e tornò dalla figlia. La portò sul divano in soggiorno e l’abbracciò.

«Non aver paura di quello stupido pezzo di vetro», le disse. «Mammina lo butterà via.»

Ma era decisa ad andare a fondo sull’episodio.

«Annie», chiese all’improvviso, «voglio che tu dica alla mamma la verità, come hai sempre fatto.»

«Okay.»

«Come sapevi che il vetro era lì?»

«Te l’ho detto. L’ho visto nella mia testa.»

«Sei sicura di non averlo già notato prima?»

«Non l’avevo mai visto», insisté Annie.

«Forse una delle tue amiche lo ha visto e te l’ha detto.»

«Non mi ricordo nessuno che mi abbia detto una cosa del genere», replicò Annie.

«Non te lo ricordi?»

«È così.»

Vera ne fu stranamente sollevata. Forse un altro bambino aveva visto il pezzo di vetro e ne aveva parlato. Ma ciò non spiegava le altre visioni della figlia.

Estrasse dal terreno la scheggia e la mise nella pattumiera mentre Annie la sorvegliava dalla finestra. Poi, lasciandola a divertirsi con un gioco di pazienza, andò in camera da letto e telefonò in studio al cognato. Non le piaceva disturbarlo, lui era sovraccarico di lavoro e aveva perso un sacco di tempo quando Annie era stata in ospedale, ma non sapeva a chi altro rivolgersi. Roberta probabilmente avrebbe riso di tutta la faccenda, ma Ned era il fratello di Harry, sicuramente le avrebbe dato retta.

Lo studio di Ned era un ambiente elegante con mobili di noce, quadri di pregio e un grande tappeto orientale. Si diceva fosse il più bello studio legale della Contea di Westchester ed era stato fotografato per Architectural Digest e il New York Times Magazine. Ned ne andava orgoglioso ed era sempre felice di mostrare ai visitatori l’impianto stereo nascosto, il computer e la raccolta di penne stilografiche Mont Blanc d’oro massiccio. Era convinto, e l’aveva detto molte volte a Harry, che un uomo lo si giudica dal suo ufficio.

Nella stanza prima dello studio lavorano due segretarie e un procuratore. Le macchine per scrivere IBM, elettroniche, erano sempre in azione, i telefoni non tacevano mai. L’aura del successo spirava in ogni angolo e la maggior parte dei clienti di Ned riteneva che se lo meritasse. La disponibilità e la premura che lui dimostrava per la cognata erano concesse a tutti coloro che rappresentava.

Quando Vera telefonò, stava lavorando a un contratto di vendita per uno stabile di appartamenti. Si fece subito passare la comunicazione.

«Ha avuto un’altra visione», gli riferì Vera, senza preamboli.

«Riguardo a che cosa?» domandò lui, diventando improvvisamente teso.

Lei gli descrisse l’episodio. Ned, appoggiato allo schienale della sedia anatomica, ascoltò e fece qualche domanda… ma continuò nel proprio lavoro. Prese appunti e riuscì anche a riscontrare su un testo un paragrafo del contratto mentre Vera parlava.

«Non vedo problemi», sentenziò alla fine. «Magari Annie fa un po’ di scena. Ultimamente ha ricevuto un sacco di attenzioni e adesso la sua vita sta tornando quella di sempre. Probabile che voglia di più.»

«Ma queste cose hanno un’impronta comune, Ned», insisté Vera. «In ospedale voleva mettermi in guardia contro quell’auto. Poco fa voleva impedire che io potessi tagliarmi. Sembra, so che è pazzesco, sembra che veda il pericolo prima che si manifesti.»

Ned gettò il fascicolo sulla scrivania e si raddrizzò di scatto sulla sedia. «Ma dai!» ribatté quasi irritato. «Tu stai troppo davanti al televisore. Annie non ha intuito nessun pericolo quando si è vista cadere sulle rotaie. E non la stavamo certo portando su una strada ferrata.»

«Questo è vero, lo ammetto.»

«Certo che è vero. Senti, forse dovresti consultare di nuovo il dottor Goodpaster. Quell’uomo mi piace. Potrebbe darti qualche consiglio.»

Vera rimase muta. «Allora?» la sollecitò Ned.

«Non voglio farlo ancora», si decise Vera alla fine. «Non voglio sottoporre Annie ad altri esami e prove. Ne ha già passate abbastanza.»

«Sì, ti capisco», convenne Ned, con tono comprensivo, quasi pietoso. «Dammi retta, per ora scordiamocelo. Credimi, ti stai preoccupando senza motivo. Però voglio che tu mi telefoni ogni volta che Annie ti dà dei problemi. Sono sempre pronto ad aiutare la famiglia di Harry. Capito? Voglio che tu mi telefoni. D’accordo?»

«Lo farò», rispose Vera, con una voce che era un sussurro. Si sentiva rassicurata, convinta che non c’era niente per cui angosciarsi e tanto felice che Ned fosse così pronto ad aiutarla.

6

Annie era pronta per rientrare a scuola. Vera le comprò un nuovo paio di jeans con una giacchetta in tinta e una cartella di tessuto scozzese con sopra il suo nome in lettere arancione. Annie era sempre più vivace. Ormai teneva gli occhiali solo per qualche ora al giorno. La vista era buona, tranne, di tanto in tanto, un annebbiamento delle pupille, che di solito spariva in qualche secondo. Dopo l’episodio della «scheggia di vetro» non aveva più avvertito niente di anormale.

Vera cominciò a cercarsi un lavoro. I risparmi e le obbligazioni fiduciarie di Annie assicuravano loro da vivere, ma Vera si sentiva estranea alla comunità. Ogni giorno scorreva le offerte di impiego sul New York Times e sulla stampa locale. Il giorno prima del rientro a scuola di Annie doveva avere un colloquio con una certa Mrs. Cynthia Malone, negli uffici lì in città di una ditta di contabilità. Cercavano un elemento per un lavoro amministrativo, impiego che lei e Ned ritenevano adatto. Vera telefonò a Mrs. Curtis, una stagionata e materna baby-sitter, perché si prendesse cura di Annie durante la sua assenza.

La signora arrivò con dieci minuti di ritardo, mentre Vera era già sulle spine per il suo appuntamento, e baciò Annie su entrambe le guance.

«Di’ in bocca al lupo alla mamma.»

«In bocca al lupo, mammina. Spero che tu ottenga il posto.»

Vera uscì di casa e si mise al volante della Buick verde, la stessa auto che Harry guidava il giorno della sua sparizione, ma che ormai aveva tutta l’intera fiancata sinistra nuova. Avviò il motore, regolò lo specchietto retrovisore e imboccò il vialetto che dava sulla strada.

Dentro casa, Mrs. Curtis si sistemò sul divano con una copia di Good Housekeeping, mentre Annie giocava sul tappeto con una bambola meccanica. Quando sentì la madre che usciva in retromarcia, corse alla finestra e la salutò. Vera le sorrise e le rispose sventolando la raano e la bambina osservò la Buick girare e immettersi sulla strada.

Questione di attimi e il suo viso assunse un’espressione dubbiosa. Trasalì e si chinò in avanti, come per vedere se c’era qualcosa. Poi cominciò a respirare affannosamente. La fronte le si imperlò di sudore e, di colpo, gli occhi le si riempirono di lacrime.

«No, mammina!» gridò.

Mrs. Curtis alzò gli occhi. «Che cosa c’è, cara?»