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«A me invece importa», dichiarò Vera.

«Perché?»

«Perché non la smetteranno di indagare.»

«E non troveranno niente.»

«Non ne sono così sicura.» Il tono di Vera era deciso e tagliente e innervosì Ned, che non amava essere contraddetto.

«Non preoccuparti di loro», l’ammonì.

«Me ne preoccupo. Non sapevo nulla dell’incidente del treno. Ma Annie sapeva.»

«Sono sicuro che è spiegabile.»

«Ma un sacco di altre cose non lo sono! E io voglio qualcosa di più che le rassicuranti parole di un avvocato.»

Ned rimase interdetto. Anche il remissivo Laval abbandonò la sua aria da cherubino e abbassò gli occhi, nervosamente, su una macchia del tappeto.

«Non c’è da illudersi», proseguì Vera, cercando di dominare le proprie emozioni, «Annie prevede le cose esattamente, le centra. Non possiamo ignorarlo, né impedirlo.»

Ned rise, tradendo la propria scarsa conoscenza dell’animo umano. «Vera», disse con calore, «mi rendo conto di che cosa provi. Tu e io vogliamo troppo bene ad Annie. Ma tu non sei tu, in questi momenti. Il fatto che quel giornalista abbia accennato al treno ti ha sconvolta. Ma sono certo che il nostro Sandy Laval sarà d’accordo con me…»

«Vera ha ragione», dichiarò il medico.

Il sorriso svanì dal viso di Ned. «Che cosa?»

«Hai sentito perfettamente. Tutta questa faccenda mi ha riempito di dubbi. So che dovrei rifiutare certe teorie mistiche, ma Annie possiede facoltà razionalmente inspiegabili.»

«Sandy», ribatté Ned, con voce velenosa, «sei stato proprio tu, qui fuori, a dire alla stampa di agire responsabilmente. Adesso bada a come parli.»

«Lo so», ammise Laval, incapace di sostenere lo sguardo di Ned, «ma forse Annie dovrebbe essere visitata da specialisti adatti… non dallo psicanalista della scuola.»

Ned parve momentaneamente stupefatto dall’improvviso voltafaccia del dottore. Scrutò Annie, che stava sfogliando un album da colorare. «La cosa mi ripugna», disse. «Altri esami. Altri dottori. Magari altri trattamenti pericolosi.»

«Sono sua madre», ribatté Vera. «La verità l’aiuterebbe. Dobbiamo scoprire che cosa le sta succedendo.»

Ned schioccò le dita, rendendosi conto che non poteva opporsi ulteriormente alla volontà di Vera senza sembrare villano. «Faremo così, allora», concluse. «Andremo da medici illustri, il meglio che offra il mercato. Sandy, tu chi consigli?»

«Non è il mio campo», rispose Laval. «Ma farò qualche telefonata. Me ne interesso io.»

La discussione era finita. Vera guardò Ned, che stava fissando Annie. Il cognato appariva disfatto.

8

Gli «specialisti adatti» di Laval furono un fiasco.

Vera portò Annie dal dottor Harrison Donnell, l’eminente psichiatra dell’Ospedale universitario di New York, il quale diagnosticò che Annie non aveva nessuna facoltà speciale. Era Vera, disse, che si ricordava soltanto «le predizioni» esatte di Annie, dimenticando però quelle fasulle. Chiunque, asserì benevolmente, ha delle intuizioni che talvolta si avverano e può capitare che giungano a gruppi.

Per il responso Vera sborsò settecentocinquanta dollari.

Poi portò Annie in una clinica di White Plains, dove i dottori ammisero che poteva anche avere qualche facoltà extrasensoriale, ma che era roba di tutti i giorni. C’erano stati, dissero, migliaia di piccoli fenomeni psichici. Meglio ignorarli.

Dello stesso parere furono i medici di tre altre cliniche, una delle quali a Chicago, specializzata in bambini «insoliti». Alla fine Vera rinunciò, giungendo alla conclusione che nessuno, nella scienza medica, aveva qualcosa di importante da dirle. Aveva sborsato quasi tremila dollari, non un centesimo dei quali rimborsabile dalla polizza d’assicurazione, poiché le visite erano da considerarsi volontarie e quindi escluse dalle spese «coperte». Vera era preparata a rinunciare ad ogni tentativo di sapere la verità sulle strane visioni di Annie, se queste visioni si limitavano a dileguarsi senza ritornare ed erano dimenticate dalla bambina.

In un polveroso e affollato supermercato di Broadway, a Manhattan, una donnina minuta con un foulard in testa, occhiali scuri e un logoro abito rosso era in fila alla cassa, in attesa di pagare una scatola di prugne secche. Stava leggendo attentamente un giornale, concentrata su un articolo riguardante Annie McKay e le sue bizzarre facoltà. Era così assorta nella lettura da non accorgersi che chi la precedeva aveva pagato e se n’era andato.

«Su, signora, venga avanti!» esclamò la cassiera.

«Torno dopo», disse la dottoressa Marie Neuberger, continuando a leggere l’articolo. Lasciò le prugne e uscì in fretta dal supermercato, adocchiando una cabina telefonica sul marciapiede e dirigendovisi decisa.

Vi entrò e chiuse la porta. Formò immediatamente il numero del Daily News e fu messa in linea con Larry Birch. Quest’ultimo non fu sorpreso di sentirla, perché già molte volte in precedenza si erano parlati.

«Birch», disse lei con determinazione, «questa bambina, la McKay. Ho letto che cosa scrivono di lei. Io posso aiutarla, ne sono sicura. Si dia da fare.»

Riattaccò senza salutare, tornò sui suoi passi e acquistò le prugne.

Annie tornò a scuola qualche settimana dopo. I suoi compagni, con la naturale volubilità dell’infanzia, avevano già dimenticato la breve celebrità di Annie. Erano più interessati ai regali che aveva ricevuto e a riempirle la testa con quello che era successo durante la sua assenza. Vera aveva cercato di tenerla al passo con il programma scolastico. Agli insegnanti era stato raccomandato di trattarla come un qualsiasi altro allievo, e fecero del loro meglio. Le avevano riservato una particina nella recita della classe, che sarebbe stata rappresentata il giorno di Natale, un atto di fiducia verso Vera che entusiasmò Annie.

Era trascorso più di un mese dall’episodio dell’incendio e la vita della bambina stava tornando alla normalità.

Non c’erano state altre visioni di sorta, niente che sconvolgesse la sua tranquillità. Il dottor Laval la giudicò quasi completamente guarita e le prescrisse occhiali da lettura, che lei cercava di non mettere. A scuola il suo profitto era buono, ma aveva bisogno di aiuto per quanto riguardava la matematica, punto debole anche della madre.

La normalità era, per Vera, una benedizione. L’incubo di Annie sembrava averla abbandonata. Adesso poteva dedicarsi alla casa, cercarsi un lavoro, seguire attentamente gli sviluppi dell’indagine sulla sparizione di Harry.

In una calda sera agli inizi di giugno, Annie si addormentò sodo, dopo un impegnativo giorno di scuola. Il suo respiro era normale, il colorito bello, lo stato generale di salute eccellente. L’umore, prima di coricarsi, allegro e sereno. All’altro capo del pianerottolo, anche Vera, nel grande letto matrimoniale, dormiva saporitamente.

Appena dopo le due si levò una leggera brezza e la luna sparì dietro uno schermo di dense nubi. Un cane vagabondo abbaiò, lontano, e un’auto rombò veloce lungo la via, facendo schizzare sassolini contro un segnale di «rallentare» fuori della casa dei McKay.

Annie si agitò nel letto, borbottò qualcosa di incoerente e riprese a dormire.

Qualche minuto dopo, si rivoltò ancora tra le lenzuola. Quella volta sbatté con un braccio contro il comodino.

Il rumore destò Vera, ma non era uno di quei rumori che automaticamente mettesse all’erta il suo istinto materno e lei non se ne preoccupò. Rimase a letto, in una specie di dormiveglia.

Poi Annie gemette, un forte gemito angosciato, e, poco dopo, di nuovo, borbottando la parola «mammina». Allora Vera balzò giù dal letto, si buttò sulle spalle la vestaglia azzurra e si precipitò sul pianerottolo verso la porta della bambina. Parzialmente illuminata dalla luce di un piccolo paralume, Annie era immobile. Quindi si girò di scatto. «Mammina», gemette ancora una volta.