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Il programma terapeutico prevedeva per Annie due giorni di intensivi esami psichiatrici, che includevano interviste e i soliti test, associazioni di parole, disegni rivelatori, quozienti base di intelligenza. Quando Vera giunse all’ospedale, la bambina stava eseguendo un test grafico, in cui doveva disegnare le cose che più o meno le piacessero. A tale scopo l’avevano portata in una gaia sala giochi, piena di colore, facendola lavorare con la psicoioga dell’equipe medica. Non c’era con lei nessun altro.

Ai visitatori non era permesso di attendere in quello speciale reparto e quindi Vera rimase in una sala d’aspetto due piani più in basso a leggere una rivista, ansiosa di vedere Annie non appena il test si fosse concluso. Aveva sott’occhio un articolo di Good Housekeeping sul come allevare un bambino in una famiglia cui fosse rimasto uno solo dei genitori. Le risultava ancora imbarazzante leggere articoli su quel tema e cercò di tenerne nascosto il titolo mentre altri visitatori andavano e venivano.

Due piani sopra, Annie stava disegnando un cavallo, uno dei soggetti che più le piacevano. La psicoioga prendeva appunti sui colori scelti da Annie, sul suo entusiasmo e su qualsiasi elemento nel disegno stesso che rivelasse timori o desideri insoliti. Le cose andavano bene. Annie era distesa sul pavimento di linoleum, nel suo grembiule giallo, intenta a disegnare il collo marrone e bianco del cavallo, prolungando il tratto verso il corpo e le zampe anteriori che galoppavano. Per una bimba della sua età, la verosimiglianza era ragionevolmente buona.

Ma, iniziando la zampa destra, Annie si bloccò di colpo. Le sue mani s’irrigidirono. La psicoioga che la sorvegliava notò il cambiamento, ma pensò che, semplicemente, avesse delle difficoltà con il disegno.

«Voglio la mia mamma», piagnucolò Annie.

La psicoioga continuò a osservarla, ignorando l’implorazione.

Gli occhi della piccola si spalancarono di colpo. Il suo respiro divenne rapido e ansante. «Voglio la mia mamma», ripeté.

La psicoioga sorrise. «Guarda, Annie, che tua mamma è a un altro piano.»

«La voglio!» Saltò in piedi, gli occhi già lucidi di lacrime. Poi lasciò cadere la matita colorata e si precipitò fuori del locale.

La psicoioga, una ventenne minuta, mise giù penna e taccuino e le corse dietro. Ma Annie, con velocità sorprendente, già filava urlando lungo l’atrio, come un’invasata.

Infermiere e inservienti sentirono il tumulto e accorsero, dandosi all’inseguimento di Annie che si lanciava verso le scale in cerca di Vera.

«Mamma! Mammina, dove sei?»

Un’infermiera fece scattare il pulsante rosso di allarme, che diffuse in ogni piano uno scampanellìo contenuto, e si portò subito dopo al microfono dell’impianto generale di diffusione. «Paziente in crisi», annunciò pacatamente, dando l’ubicazione di Annie in tono quasi casuale, cercando di non disturbare gli altri ricoverati.

Annie galoppò giù per le scale, sfiorando due sanitari che restarono lì impalati. All’improvviso venne affrontata da due inservienti vestiti di bianco, che le sbarrarono ogni via di fuga.

«Mammina!» gridò, «ho visto papà morto, vicino al ponte!»

Un inserviente riuscì ad afferrarla, ma ce ne volle un altro per domarla. La bimba ansimava spasmodicamente, piangendo da isterica, la pelle gelata e intrisa di sudore.

Cercarono di riportarla nella stanza, ma lei scalciava e si sbracciava violentemente. Dovettero inchiodarla sul pavimento e chiedere un intervento d’emergenza.

Vera, avvisata da un’infermiera, accorse, salendo i gradini a due a due.

Si fermò inorridita vedendo due robusti inservienti infilare ad Annie una camicia di forza. La bimba sanguinava dalla bocca, macchiando di rosso i due uomini e il pavimento.

Alzò gli occhi e scorse Vera. «Mamma!» gridò. «Papà… morto, vicino al ponte!»

Qualche attimo dopo accorse un dottore con un’enorme siringa e immerse l’ago nel braccio di Annie.

La piccola emise un urlo selvaggio, poi si afflosciò.

La collera invase Vera. Nessuno, d’ora in avanti, avrebbe trattato sua figlia in quel modo!

In silenzio seguì gli inservienti che riportavano in camera Annie inerte. Vera lottò disperatamente per non esplodere, per dominare l’impulso irrefrenabile di scagliarsi contro i «professionisti» che circondavano Annie, che restavano fedeli così rigidamente alle loro rispettabili idee. Nella sua collera, nel suo orrore, prese una decisione: no, non avrebbe più permesso che Ned decidesse del destino di Annie, per quanto caro e affettuoso, per quanto bene intenzionato fosse. Anche lui era schiavo del rispetto per la medicina tradizionale. Quelle persone che trasportavano Annie, che l’avevano legata e drogata… erano loro i rappresentanti della scienza. Avevano fallito. Tutti avevano fallito.

10

Larry Birch non era mai stato così soddisfatto.

Guidava la grigia Chevrolet lungo la Saw Mill River Parkway, a venti chilometri oltre il limite di velocità. Vera e Annie erano sui sedili posteriori. Nonostante gli scossoni e i sobbalzi provocati dalla guida caotica di Birch e dall’assoluta mancanza di sospensioni dell’auto, nessuno protestava. Il senso di liberazione, di ansia per una soluzione che sembrava vicina erano troppo grandi.

«Sono nauseato», aveva detto il dottor Laval quando Vera gli aveva dichiarato che sarebbe andata da Marie Neuberger. «Quella non è scienza medica», l’aveva rimproverata, «è ciarlataneria.» E Laval si era immediatamente lavato le mani del caso di Annie. «Non avrò mai niente a che fare con medicastri», aveva dichiarato, disponendo che la cartella e i precedenti clinici di Annie non fossero trasmessi alla Neuberger.

Laval voleva anche avvertire Ned delle intenzioni di Vera, ma lei fece appello alla loro amicizia, al segreto professionale per insistere perché il cognato non venisse informato immediatamente.

Birch girò per la West Side Highway, che correva lungo il fiume Hudson. Era in estasi: pensava compiaciuto a quanto, con il suo aiuto, stava prendendo forma. Certo, era posto di nuovo davanti al problema etico di «costruire» una notizia sensazionale grazie al proprio intervento, ma accantonò ben presto ogni scrupolo. Non stava forse aiutando una povera bambina afflitta da un male misterioso? Non era lui, prima di tutto, un essere umano e, dopo, un giornalista? Sì, da quella sua azione caritatevole avrebbe tratto modesti utili: una storia da prima pagina, l’invidia dei colleghi, forse il Premio Pulitzer. Ma che cos’era tutto ciò rispetto alla soddisfazione di avere salvato una famiglia?

All’uscita della Settantanovesima strada, Birch lasciò la West Side Highway. Poco dopo transitava per vie brulicanti di una folla pittoresca ed etnicamente composita. Piegò a sud su Broadway che, in quella parte a nord dalla zona dei teatri, era un’arteria residenziale e commerciale, piena di piccoli negozi e di supermercati, molti con la merce esposta sul marciapiede. Poi infilò la Settantaquattresima Ovest per fermarsi davanti a un grande edificio residenziale in stile barocco.

«Perché ci fermiamo?» domandò Vera.

«Siamo arrivati.»

«È qui che vive la dottoressa?»

«Già. Proprio qui all’Ansonia. Guardi, Mrs. McKay, non storca il naso. Questo è un vecchio edificio famoso, un simbolo. Ci ha vissuto un sacco di artisti. Alcuni ci abitano tutt’ora.»

Vera guardò gli «artisti» che ciondolavano lungo il marciapiede lungo e stretto, che percorreva l’intero isolato. C’erano bohémien dall’abbigliamento trascurato, qualche coppia di invertiti che si prendeva in giro a vicenda, uno sfaccendato di passaggio e un assortimento di gente qualunque. Nessuno avrebbe trovato collocazione a Tarrytown.

«Che razza di medico vorrebbe esercitare in un posto del genere?» chiese Vera, preoccupata.