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«Marie Neuberger», rispose Birch, girando la chiavetta dell’accensione e lasciando spegnare il motore con un ultimo sussulto. «È una di quella razza.»

Vera soffocò i suoi sentimenti di conservatorismo provinciale. Sapeva che poteva essere l’ultima speranza per Annie.

Scesero dall’auto e Vera fu immediatamente aggredita dal puzzo degli scappamenti e dai cattivi odori che aleggiano, in una giornata calda, nella Settantaquattresima Ovest. Birch, Annie e Vera entrarono nel vecchio Ansonia e, nell’atrio, presero l’ascensore. Lentamente raggiunsero l’ottavo piano e s’inoltrarono lungo l’oscuro pianerottolo, in cui stagnavano aromi della cucina dell’Europa orientale. In uno degli appartamenti qualcuno pestava su un pianoforte scordato, forse per rievocare il passato splendore dell’Ansonia, ma l’esecuzione risentiva delle più modeste capacità degli attuali inquilini.

Birch guidò Vera e Annie davanti a una porta verde di legno, in fondo al pianerottolo. La vernice era scrostata e sopra lo spioncino era avvitata una targa sbiadita: DR. MARIE NEUBERGER.

Birch tentò di suonare il campanello, ma il pulsante era bloccato. Allora bussò e un po’ di vernice e di polvere caddero sul logoro zerbino rosso.

Vera strinse forte la mano di Annie. Sentiva crescere in sé la tensione. L’Ansonia sembrava una di quelle case stregate dei romanzi o dei film dell’orrore.

Dall’interno si sentì un rumore di passi rapidi, decisi, più forte a mano a mano che si avvicinavano alla porta.

Di colpo lo spioncino si aprì.

«Chi è?» chiese una voce con un lieve accento mitteleuropeo.

«Birch. Ho con me le McKay.»

«Desidera una visita?»

«Sì», rispose il giornalista, «siamo qui per questo.»

«La visita è per lei, Birch? È malato?»

«No, è per le McKay», spiegò lui sempre parlando alla porta chiusa.

«Che lo dica la signora, allora.»

«Sì», intervenne Vera, «desidero la visita.»

Tre serrature scattarono una dopo l’altra, poi la porta si aprì, cigolando sinistramente.

Un piccolo volto dalla carnagione terrea e dalle rughe accentuate fece capolino. Marie Neuberger era esile e, come minimo, sulla sessantina. Capelli bianchi, raccolti a crocchia sulla nuca. Indossava una gonna jeans su una calzamaglia nera, con una camicia scozzese troppo grande. I freddi occhi marrone erano protetti da occhiali dalle lenti azzurrate, senza montatura. Si accorse che Vera era sconcertata dal suo aspetto.

«Lo so», disse, sempre senza sorridere. «Non assomiglio ai medici della televisione. Sono poco presentabile, vero?»

«Oh, no», si affrettò a rispondere Vera.

«Lei mente, ma è okay. Lei mente per farmi sentire meglio.»

Vera arrossì, non sapendo che cosa rispondere.

Marie Neuberger li squadrò, uno dopo l’altro. «Non visito qui sulla porta», disse. «Di solito la gente viene dentro.»

Accennò all’interno dell’appartamento e i tre entrarono. L’alloggio era reso scuro da piante artificiali che toglievano gran parte della luce. Il mobilio era vecchio, in stile provenzale, sui toni del bordeaux. Le pareti quasi tutte nude, dipinte di una tinta mostarda. Ma qua e là si notava una litografia e, sistemato in un angolino, c’era un gruppo di vecchie fotografie ingiallite. Vera le fissò, cercando di mostrarsi incuriosita.

«Le interessano?» le chiese la Neuberger.

«Sì.»

«I miei insegnanti, a Vienna.»

«Dovevano essere grandi uomini.»

«Contraddizione in termini. Si sbagliavano tutti ed erano barbosi.»

«Allora perché tiene appese qui le loro foto?»

«Hanno figli in America», rispose la Neuberger. «A volte vengono a far due chiacchiere. Non voglio rompere i ponti con la vecchia patria.» Si avvicinò alle fotografie. «Hanno studiato tutti con Freud. Che bidone, quello.»

«Sigmund Freud?» si stupì Vera.

«E chi altri? Il macellaio? Un dritto, quello. Delle creature umane ne sapeva quanto io so dei pinguini. Aveva soltanto ciò che oggi si chiamano buone relazioni pubbliche.» I suoi occhi guizzavano da Vera ad Annie. «Chi è la paziente?» chiese asciutta.

«Tutt’e due», rispose Birch.

La Neuberger alzò lo sguardo al soffitto. «Che cosa credete che sia questa, una fabbrica?»

«Si tratta della mia bambina», si affrettò a spiegare Vera. «Ma anch’io posso aver bisogno di aiuto.»

«Perché crede alle sue storie fantastiche?»

Vera sussultò. «Non sono…»

«Sì, sì, sì, lo so. Non lo sono mai.»

Vera si sentì di colpo scombussolata. Lanciò un’occhiata apprensiva a Birch.

«Perché guarda lui?» domandò la Neuberger. «Lui non dovrebbe nemmeno essere qui.» Si rivolse al giornalista. «Lei se ne vada e aspetti giù dabbasso.»

Birch era abituato ai modi della Neuberger, ma si finse sorpreso. «Dottoressa, sono amiche mie. Non posso davvero piantarle qui.»

«Perché no? Annegheranno qui da me? O se ne va lei, o se ne vanno loro. Questo non è uno spettacolo teatrale come giù in città.»

Birch si strinse nelle spalle. «Vado a fare due passi», disse a Vera. «Comunque non mi allontanerò. Qui si troverà benissimo.»

Vera avvertì un’immediata, illogica paura, ma non si oppose.

Quando Birch si chiuse la porta alle spalle, lei capì che aveva oltrepassato il punto da cui sarebbe stato impossibile tornare.

«Questa gente dei giornali», commentò la Neuberger, scuotendo la testa mentre richiudeva accuratamente l’uscio, «bisogna stare in guardia da loro. Questo Birch è uno di quelli onesti. Mi procura pazienti. Ma poi ne tira fuori degli articoli.» Accennò bruscamente verso il divano color porpora. «Lei e la piccola, sedetevi. Coraggio.»

Obbediente, Vera prese Annie per mano, e si accomodarono entrambe. Lei si era concentrata tanto intensamente sulla Neuberger da non accorgersi che la mano della bambina tremava. Notava solo in quel momento che Annie era come pietrificata.

«Ha sposato sua figlia, lei?» le domandò la dottoressa.

«Prego?» rispose Vera, attonita.

«Le tiene la mano, come nelle belle statuine.»

«Penso sia un pochino spaventata.»

«Di che cosa? Di me? L’ha portata qui in macchina?»

«Sì.»

«Aveva paura?»

«No.»

«E allora… non era spaventata per i pazzi che circolano in macchina, degli ubriachi e dei vagabondi, ma ha paura di me. Non è un buon segno… lei si comporta in modo sbagliato con sua figlia.»

«Perché? Che cosa le faccio, io?»

«È lei che la rende timorosa. La piccola sente che sua madre ha paura di me.»

Vera, a disagio, si agitò sul divano. «Be’, forse…»

«Lei è un’insicura. Dipende da altre persone. Le va una birra?»

«Birra?»

«Sa che cos’è una birra, no?»

«In uno studio medico?»

«Signora, qui non siamo in chiesa. Birra?»

«No… grazie.»

«La bimba?»

«Birra ad Annie?»

«Signora», disse la Neuberger, con condiscendenza, «la birra non fa male ai bambini. Questa è un’altra delle storie fasulle a cui lei crede. La piccola si berrà una Heineken.»

«No!» ribatté Vera con fermezza.

«Okay, io sì.» La Neuberger marciò in cucina. Vera, nonostante tutti gli avvertimenti che aveva ricevuto, era terrorizzata. Quella donna era matta, dava i numeri. Sbirciò l’orologio. Quando avrebbe potuto squagliarsela educatamente?

Annie le si strinse vicino e le sussurrò all’orecchio: «Mamma, che cosa c’è che non va in quella signora?»

«Che cosa vuoi dire?» bisbigliò Vera.

«Parla in modo strano.»

«Be’, certe persone fanno così.»

«Mammina, ho paura. Credo sia una strega. Andiamo a casa.»

«Forse lo faremo. Ancora qualche minuto e poi decideremo.»