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«Capisco.» Vera chinò la testa e cominciò a singhiozzare, dapprima in modo sommesso, poi incontrollabilmente. Ancora una volta si sentì colpevole; si chiese se non avesse fatto qualcosa che avesse ferito Annie.

Marsh interruppe l’interrogatorio. Nei suoi undici mesi da interno non aveva ancora imparato a trattare con i parenti dei ricoverati. Sebbene si sforzasse di assumere una posizione di distacco dai propri pazienti non poteva non commuoversi per Vera. Davanti a quell’angoscia, a quell’evidente dedizione alla famiglia non poteva prestare fede alle maligne dicerie che erano dilagate in tutta Tarrytown.

«Non c’è nient’altro che dovrei sapere su Annie?» domandò in tono sommesso.

Vera sospirò, poi scosse la testa, desolata. Riandò con la mente alla breve esistenza di Annie, alle sue malattie, alle sue abitudini. «È una bimba meravigliosa», disse. «Traumatizzata per non avere un padre. Ma, a parte questo, non c’è nient’altro.»

«Capisco», annuì Marsh.

«In ambulanza, mentre venivamo qui», proseguì Vera, «continuava a dire con voce lamentosa: ‘Lei si prenderà cura di noi, sarà lei a proteggerci’. Mi chiedo a chi si riferisse.»

«Forse a lei, signora», suggerì Marsh.

«Non lo so», replicò Vera.

Marsh si alzò, battendole gentilmente sulla spalla. «Le faremo sapere qualcosa non appena ci saranno notizie», le disse e uscì.

Vera fu sola e l’angoscia la riafferrò. Era stata una bimba trascurata dai genitori, gente frivola e mondana. Prima di sposare Harry non si era mai sentita circondata da un vero affetto. E in quel momento con Harry che se n’era andato… Vera ripensò al giorno in cui lui era sparito. Dopo la colazione del mattino aveva baciato Annie, aveva salutato Vera e si era messo al volante della sua auto per andare in ufficio. Non aveva più fatto ritorno, nessuno l’aveva mai più visto. La polizia aveva trovato la macchina a parecchi chilometri e più tardi la sua giacca era stata rinvenuta in un armadietto della Grand Central Station. Era stato per Vera un periodo doloroso e paralizzante ma perlomeno le era rimasta Annie.

Vera sentì di colpo lo struggente, inesplicabile desiderio di telefonare ai propri genitori che, ormai in pensione, si erano stabiliti in California. Ma si ricordò quanto si fossero dimostrati ostili quando Harry era scomparso. Secondo loro o Vera aveva fatto lo sbaglio di sposare il tipo d’uomo che a un certo punto se la squaglia, oppure aveva sposato un uomo rispettabile, comportandosi poi in modo da nausearlo. Probabilmente avrebbero trovato il modo di attribuire a lei anche la malattia di Annie.

Poi a Vera venne in mente che esisteva qualcuno a cui chiedere aiuto.

Frugò nella borsetta per trovare una moneta. Telefona a Ned, si disse. Il fratello di Harry era il pilastro della famiglia, quello che si era dimostrato sempre pronto a dare una mano da quando Harry era sparito. Sarebbe arrivato lì e l’avrebbe aiutata. Le avrebbe dato quel senso di calore e di premurosa attenzione.

Non aveva spiccioli. Cercò di alzarsi e di andare al banco dell’accettazione, ma le gambe non le ubbidirono. Ripiombò sulla seggiola di legno, con il respiro affannoso, la gola chiusa e arida.

Lottò per dominarsi, per dimostrare quella fermezza che tutti ritenevano le mancasse. Se le infermiere avessero fatto capolino dalla porta per vedere la donna che aveva firmato le carte? Se avessero pensato che lei era stata una moglie da quattro soldi? Non era vero. Annie lo sapeva. E quella era la sola cosa che contava.

Qualche minuto più tardi sentì all’esterno dei passi pesanti e familiari. Un’ombra cominciò ad allungarsi sul consumato linoleum verde dell’atrio. Vera si aggrappò ai braccioli della sedia. I passi erano lenti, ma a lei parvero quasi riluttanti a proseguire.

Un uomo entrò. Vera lo fissò.

«Ned!» Il sollievo nel vederselo davanti le restituì improvvisamente tutta la sua energia. Balzò in piedi e gli corse incontro.

«No, rimani seduta», la esortò Ned, la cui voce morbida e modulata risuonava familiare e confortante. «Vera, da brava!» Dolcemente la riaccompagnò alla sedia.

«Sono così felice che tu sia qui», disse lei, singhiozzando di nuovo irrefrenabilmente. «Volevo telefonarti, ma…»

«Su, su, ora calmati. Mi ha telefonato Roberta Moran. Ha visto l’ambulanza. Ero appena rientrato da quel mio viaggio d’affari. Per fortuna ero in casa. Sono corso qui subito.»

Era tipico di Ned, pensò Vera, di essere così attento, così padrone di sé. Sebbene avesse solo trentotto anni, cinque meno di Harry, Ned era sempre stato il vero capo dei McKay. Era stato il primo a rompere la tradizione di famiglia nel campo assicurativo a Tarrytown, intraprendendo la carriera legale. Gli amici lo consideravano più in gamba di Harry, che faceva l’assicuratore. Ned non solo si era fatto un nome come avvocato, ma dava di sé un’immagine di autorità, rafforzata dal suo aspetto esteriore: alto, impeccabilmente vestito con sobri abiti e panciotti tradizionali, con baffetti e barba alla Van Dyke ben regolati.

Si chinò accanto a Vera e le prese una mano. «Ho appena parlato con Laval.» Seguì un lungo istante di silenzio.

Vera riuscì a guardarlo negli occhi, terrorizzata da quanto lui potesse dirgli.

«Sono ottimisti… ma non possono garantire…»

«Voglio solo che viva.»

«Certo. Tutti noi lo vogliamo.» I muscoli del volto di Ned si irrigidirono. «Questa faccenda è come una mazzata per me», disse. «Sai quanto voglio bene ad Annie.»

«Sì.»

«Se c’è bisogno di specialisti, li faremo venire, anche in aereo. Tu lascia che me ne occupi io. E non preoccuparti della spesa.»

Vera non aveva ancora pensato ai soldi, ma l’assicurazione di Ned la rincuorò.

Vera e Ned attesero per due ore e mezzo. Scambiarono poche parole. Ogni tanto Ned faceva una puntata al pronto soccorso per avere notizie, per sentirsi dire che le condizioni di Annie erano «stazionarie», un eufemismo che a loro non diceva nulla. Finalmente il dottor Sanford Laval, il pediatra di famiglia, uscì dal pronto soccorso e si avviò verso la piccola sala d’aspetto, dove Vera era immobile sulla sedia. Era troppo agitata per dormire, sebbene avesse tanto bisogno di un buon sonno. Ned sedeva accanto a lei, a occhi chiusi.

Vera udì entrare Laval, riconoscendo il suo passo strascicato. Tutti in città sapevano che Laval aveva deciso di diventare pediatra dopo che, da adolescente, era rimasto zoppo in seguito a un attacco di poliomielite. Era ormai un uomo di mezza età, con tendenza alla calvizie e alla pinguedine e una faccia rincagnata che ricordava quella di un bulldog. Vera lo aveva sempre trovato sinceramente amichevole e coscienzioso.

Come entrò Vera e Ned si riscossero.

«Vera», disse Laval con la familiarità di chi conosceva da anni i McKay, «ho appena visto Annie.»

Gli occhi di Vera erano lucidi per l’ansietà.

2

La piccola stanza parve piombare nel silenzio. I rumori dell’atrio, gli inservienti con cigolanti carrelli pieni di cibo, l’incessante gracchiare dell’altoparlante, svanirono dalla coscienza di Vera come se non fossero esistiti. Fissò Laval che si sedeva di fronte a lei con le gambe divaricate per lasciare spazio alla pancia prominente.

«Vivrà?» chiese Vera.

«Oh, sì, credo di sì.»

«Allora…»

«È molto malata, Vera. Non posso negarlo.»

Vera capì che Laval esitava a dire tutto. Teneva gli occhi bassi, poi sbirciò Ned, cercando di evitare lo sguardo di Vera.

«Voglio sapere tutto», disse lei.

«D’accordo», annuì lui a malincuore. «Vera», proseguì lentamente, «la vista di Annie è rimasta offesa da questo virus.»

Si interruppe. Seguì un lungo silenzio. Ned e Vera si scambiarono un’occhiata terrorizzata e angosciata. Poi Vera non riuscì più a trattenersi. «Dottor Laval», implorò con una voce che era quasi un urlo, «Annie è cieca?»