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La Neuberger alzò le spalle. «Vedremo. Adesso smettiamo. Lei aspetti qui.»

«Aspettare che cosa?» le domandò Vera.

«Che io rifletta. Devo sistemarvi per stanotte, organizzare tutto.»

Vera non era rimasta d’accordo di restare, ma non aveva nemmeno rifiutato. «Avrà le risposte?» chiese, dopo una breve esitazione.

La Neuberger allargò le braccia. «Chi può saperlo? Tutti vogliono le risposte, come in un libro di testo», disse. «Devo consultare libri e appunti, magari anche telefonare a qualche collega.»

«Ma… qualche idea ce l’ha?» Il volto di Vera andava assumendo un’aria di disperata ansietà.

«Idee ne ho. Ma non le do una garanzia come quando compra un televisore. Se non posso aiutarla, comunque, non le presenterò nessuna parcella.»

«Dottoressa, lei ritiene che Annie sia… mentalmente disturbata?»

Per la prima volta il volto della Neuberger si illuminò di un sorriso da nonna. Un sorriso che riscaldava la stanza, donandole vivacità e umanità.

«No», rispose come se fosse stata sempre una cosa ovvia, «non è mentalmente disturbata.»

«Sia ringraziato il cielo», mormorò Vera.

«Per le turbe mentali, la manderei da uno di quei pagliacci con l’infermiera che seleziona gli appuntamenti. Qui la cosa è differente.» La Neuberger si alzò e si stiracchiò. «Adesso aspetti qui. Mangerete in cucina. Ho del salame che ho preso in quel buon negozio qui sotto, non le porcherie del supermercato, e ci sono anche vino e minestra. Più tardi parleremo ancora.»

La Neuberger scomparve nei meandri del suo appartamento, si infilò un cardigan e andò in uno studiolo tappezzato di libri. Si sedette su una seggiola di legno, prese un taccuino giallo e un mozzicone di matita e cominciò a mettere giù appunti.

Dopo la sparizione della dottoressa, i sentimenti di Vera nei suoi confronti cominciarono a oscillare dal calore al sospetto, all’ostilità e viceversa. E intuiva che chiunque venisse in contatto con quella strana donna probabilmente sperimentava la stessa gamma di sensazioni. Raccontò ad Annie le fiabe preferite mentre il sole tramontava e il soggiorno diventava ancora più deprimente. Alla fine la bambina disse di avere fame e madre e figlia andarono in cucina.

Il locale conservava le originarie pareti a piastrelle bianche e i tubi dell’acqua non incassati nel muro. Gli elettrodomestici erano vecchi, ma puliti. Il frigorifero ben rifornito, con una netta prevalenza dei cibi che denotavano l’origine europea della Neuberger: budini, abbondanza di birra, ingredienti per la pastasciutta. Vera decise di rinunciare al salame e preparò invece una minestra e un’insalata di tonno. Mentre mangiavano, cercò di distrarre Annie con giochi di parole e di aritmetica.

Alle nove di sera Annie si addormentò sul divano, in braccio alla madre. E Vera rimase ancora ad aspettare. Era dalle cinque che Marie Neuberger non si faceva vedere. A volte Vera si chiedeva se anche la dottoressa non si fosse addormentata… o peggio. Appena dopo le nove, però, Vera udì tonfi di volumi che venivano chiusi, poi la voce della psicanalista che parlava al telefono. Non riuscì a percepire tutto quanto veniva detto, ma qualche parola filtrò attraverso le pesanti porte di legno del vecchio e già glorioso edificio: morte… avvertimento… protettrice… confusione.

Finalmente, poco dopo le dieci si aprì una porta.

Una lama di luce guizzò da un lungo corridoio sul tappeto persiano e sul divano. Vera alzò gli occhi. Marie Neuberger le stava davanti, in piedi. «È risolto», disse.

Il cuore di Vera ebbe un tuffo. Ma poi la sua abituale prudenza ebbe il sopravvento. «Mi dica», fu la sua contenuta risposta.

La Neuberger accennò con la testa verso il settore privato dell’appartamento. «Nel corridoio a sinistra c’è una cameretta», disse. «Metta a letto la piccola.»

Vera prese in braccio Annie e la portò nella stanzetta degli ospiti, adagiandola sul lettino, l’unico pezzo d’arredamento oltre a una vecchia cassapanca. La bambina si svegliò per un momento, si guardò attorno imbambolata e riprese a dormire. Vera uscì senza far rumore e tornò dalla Neuberger.

«Sediamoci in cucina», propose la psicanalista. «Così non sveglieremo la povera bimba.»

Vera la seguì ed entrambe sedettero al tavolo dal consunto ripiano di formica rossa. Il ventilatore del piccolo locale frusciava e ogni tanto una delle ventole, allentata, urtava il telaio producendo un suono metallico. A parte quel rumore monotono, la cucina era silenziosa e dava una sensazione di calda intimità.

La Neuberger consultò brevemente il suo taccuino, inforcando gli occhiali che teneva nel taschino del cardigan. Poi li tolse e li posò sul tavolo fissando Vera. «Allora», disse, «lei ha un problema e lo esamineremo insieme. La prego di ascoltarmi senza preconcetti, perché quello che sentirà non se lo sentirà dire da altri medici.»

«Senz’altro», rispose Vera. Si sporse in avanti, le mani strette, quasi tremando per l’ansia.

«Cominciamo con un semplice assunto», esordì la Neuberger. «Credo che lei sia sincera.»

Vera sospirò di sollievo e si lasciò ricadere indietro.

«E credo che la bimba, anche lei, dica la verità.»

«Io so che dice la verità!» confermò Vera, convinta, per la prima volta, che qualcuno prendeva sul serio il problema.

«Adesso dobbiamo porci la domanda», proseguì la Neuberger, «di come avvengano questi cosiddetti miracoli. Dev’essere coraggiosa. Il solo fatto che le dica che lei e la piccola siete sincere non deve farla esultare. La faccenda è seria… una faccenda grave. Che mi rattrista.»

La gola di Vera parve chiudersi. Il suo respiro divenne affannoso.

«C’è pericolo per lei e per Annie», affermò asciutta la Neuberger. «Ecco perché la bambina ha queste visioni, per lottare contro questo pericolo. Per proteggervi. Per salvarvi.»

Gli occhi di Vera si riempirono di terrore.

«Ascolti attentamente», la rimproverò la dottoressa. «Mi sono sempre chiesta se i morti possano inviare segnali ai viventi, non proprio a tutti i viventi, ma a una particolare persona. Uno muore, il cervello muore, ma che cos’altro fa? Entra in una sfera spirituale dove continua a esistere? Invia idee, pensieri, avvertimenti a qualcuno nel mondo dei viventi?»

Vera cominciava a sentirsi disorientata. «Questo che cosa c’entra con?…»

La Neuberger sollevò una mano grinzosa. «Ora le spiego, non mi interrompa. Io credo che qualcosa sia trasmessa dal defunto, se lo spirito di chi è morto è correttamente influenzato.

«Ora, è pacifico che queste faccende di Annie sono cominciate con la sua malattia. Le cose che vede non possono essere spiegate come coincidenze o percezioni extrasensoriali come le hanno detto gli altri medici. Io penso…»

La Neuberger si interruppe, si sporse e afferrò la mano di Vera, un gesto assai raro in quella donna di solito austera e riservata. «Penso», continuò, «che c’entri la bambina morta nel Kansas.»

Un brivido gelato percorse Vera dalla testa ai piedi. «Quella che è caduta sui binari?»

«Sì. Nella sua visione, Annie ha creduto di essere lei quella bambina. Ho fatto qualche telefonata. Mi sono convinta che Annie non poteva assolutamente aver saputo di quella morte. E sono anche convinta che la grave malattia di Annie è stata provocata dal decesso di quella bambina. In un modo, che noi mortali non afferriamo, la percezione di quella piccola morta è entrata in Annie, subito dopo che lei è caduta sui binari del treno, nel Kansas. Questo ingresso ha prodotto un violento trauma nell’anima di Annie, ne ha indebolito la resistenza e ha causato la sua apparente infermità. C’è un’identità spirituale tra quella bambina morta e lei.»

Vera sussultò.

«Annie vede quello che la bambina morta vuole che lei veda. Nel nulla, al di là della vita, la morta ha un punto di vantaggio. Può vedere ciò che l’Annie vivente non può vedere. Normalmente, lei vede le cose normali. Ma a volte interviene lo spirito della bambina morta. Fa sì che Annie sperimenti le strane cose di cui lei mi ha parlato… queste predizioni.»