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«Sì», rispose la bambina, rimbalzando agilmente sul letto e distratta da una macchia marrone che aveva visto sul soffitto.

«Farai del male a te stessa se racconti ciò che non è vero. Ma se, in effetti, vedi qualcuna di quelle strane cose, dillo alla mamma, e lei me lo riferirà. Hai capito bene?»

«Sì.»

«Anche nel bel mezzo della notte, Annie. Svegli tua mamma subito e lei sveglierà me. E racconterai tutto, senza tralasciare niente e senza aver paura di essere presa in giro.»

«Okay», rispose Annie, non capendo bene quello che le stava dicendo la Neuberger, ma rendendosi comunque conto che si aspettavano da lei nuove visioni.

«Ora, mia cara Vera», proseguì la Neuberger, «lei ha qui un ruolo importante, anche se non ha visioni. Può darsi che la piccola dica a lei cose che a me non direbbe. Quindi, se io non sono presente, lei sarà la sola ad ascoltare ciò che Annie dice. Deve trascrivere tutto, parola per parola, se ci riesce. Ho portato block notes e penne.»

«Farò come dice», assicurò Vera.

«Molto bene. Inoltre tenga occupata la bambina. A volte i piccoli, quando si annoiano, inventano frottole. Mia sorella era una di quelle. Accidenti, che bugiarda!»

Uscirono tutt’e tre per fare una passeggiata insieme, con la Neuberger attentissima ad ogni minima sfumatura nel comportamento di Annie. La bimba sembrava perfettamente normale. Saltellava, tenendo la mano di Vera, senza dimostrare nessun turbamento per essere stata sbalestrata da casa all’appartamento della Neuberger e poi al motel. Non manifestò neppure emozione per essere vicina al ponte. Anche quando il Tappan Zee le fu sopra la testa lei non fece nessun cenno alla visione di suo padre morto.

Trascorsero tre giorni e tre notti. Vera non si era mai accorta fino ad allora di quanto le mancasse la propria cucina.

E non accadeva niente.

Le guardie si davano il cambio, scambiandosi battute sulla stravagante signora che era con le McKay, facendo ipotesi sulla categoria di persone che aveva il coraggio di affidarsi, o solo accompagnarsi, a Marie Neuberger.

La quarta notte, però, fu diversa.

Era una serata calda e afosa, di quelle che fanno invocare la pioggia a rinfrescare l’aria. La temperatura si manteneva sui ventisette gradi e non si muoveva una foglia. Sulla vallata dell’Hudson incombeva un puzzo, gas d’automobili, rifiuti industriali, fiume inquinato, imprigionato da un’atmosfera immobile. I condizionatori d’aria dell’Empire Motel funzionavano al massimo, creando un concerto ininterrotto di ronzii e cigolii, udibile dentro e fuori. Vera mise a letto Annie alle 20.30, ma ci volle più di un’ora perché la bambina prendesse sonno. Quando la vide addormentata, lei comunque accese un piccolo paralume sul tavolo e aprì una copia del Parents Magazine, vegliando, attenta a qualsiasi suono che provenisse da Annie.

Nella camera attigua Marie Neuberger stava annotando le sue osservazioni del giorno e le sue ultime riflessioni su Annie. Non era scoraggiata per l’assenza da parte della piccola di visioni relative al ponte così vicino.

Vera, alle 22.08, stava finendo un articolo sui mobili per i bambini. Nonostante il rumore del condizionatore d’aria percepì il cri-cri di un grillo fuori della finestra. Alzò gli occhi, stupita per come un animaletto simile riuscisse a produrre un suono tanto forte, poi passò a un altro articolo.

Alle 22.14 udì Annie emettere un verso, come un gorgoglio.

Un suono soffocato, come quelli che a volte segnalano l’inizio di un raffreddore.

Vera spiò la figlia per qualche momento, la vide tranquilla e immobile e decise che non c’era da preoccuparsi.

Annie ripeté il brontolìo.

Poi, di nuovo.

«Paparino», gemette.

Vera lasciò cadere la rivista sul tavolo. «Annie», sussurrò, «stai bene, tesoro?»

Annie si rigirò e brontolò ancora, questa volta abbastanza forte da spaventare Vera.

«Che cosa non va?» le domandò Vera con voce agitata.

Il respiro di Annie divenne più pesante. Gocce di sudore le imperlarono la fronte.

Annie si rigirò ancora, percuotendo forte col braccio il materasso.

Vera si lanciò alla porta, girandone la chiave nervosamente e aprendola.

La guardia, Elmer Greer, un poliziotto in pensione di sessantadue anni, non era al suo posto e stava chiacchierando con un cliente nell’area di parcheggio. Vedendo Vera, cercò di riguadagnare in tutta fretta la sua postazione. Ma i venti chili in più gli permisero solo di trotterellare verso la stanza.

Vera si precipitò alla porta della Neuberger e bussò. La dottoressa, ancora sveglia, aprì subito. «Che cosa c’è, che cosa c’è?» chiese.

«Annie», ansimò Vera.

La Neuberger afferrò carta e matita e si affrettò verso la camera di Annie.

Elmer Greer arrivò proprio mentre le due donne erano a metà strada fra le due stanze. «Posso essere utile?» domandò senza fiato.

«Faccia da testimone», gli disse la Neuberger. «Tenga a mente tutto.»

Greer si limitò a stringersi nelle spalle davanti a un ordine così strano e si risistemò sulla propria sedia.

La Neuberger e Vera entrarono nella stanza di Annie.

Si bloccarono entrambe, di colpo.

Annie era scesa dal letto. Aveva indossato la sua vestaglietta rossa e calzato le pantofole. Aveva gli occhi spalancati, deliranti.

Cominciò a dirigersi verso la porta.

Vera si mosse per fermarla.

«No!» ordinò la Neuberger. «Vediamo dove ci porta.»

Come se fosse guidata da una presenza invisibile, Annie uscì all’aperto. Sembrava essere in un altro mondo.

«Meglio fermarla!» suggerì Greer, ma la Neuberger gli impose con un gesto di trarsi in disparte.

Annie entrò nel parcheggio.

«Stiamo attente alle macchine», disse la Neuberger. «Fermiamo loro non lei.»

Ma non arrivava nessuna automobile e Annie scivolò attraverso il parcheggio in un bosco lì nei pressi. «Paparino», continuava a mormorare.

All’improvviso cominciò a correre, lasciando interdette Vera e la psicanalista.

Annie galoppò tra gli alberi. «Papà!» gridò questa volta, con tutto il fiato.

Oltrepassò la zona di luce che veniva dal motel, immergendosi nel buio. Solo le sue grida e lo scintillìo dei capelli sotto il chiaro di luna indicavano dov’era.

La Neuberger e Vera cercarono di starle dietro, senza perderla di vista, ma, come altre volte, Annie correva fortissimo. Sempre di più. La Neuberger fu costretta a fermarsi. Vera continuò l’inseguimento. Elmer Greer non ci provò neppure.

Annie deviò bruscamente sulla destra, verso il ponte, la sua figuretta delineata dalle luci. «Papà!» gridò. «Voglio venire da te!»

Alla fine, in un folto d’alberi all’ombra del Tappan Zee, si fermò. Vera, abbastanza vicina da riuscire a vederla, la osservò che riprendeva fiato, per poi guardare giù verso la terra umida e scoppiare in singhiozzi.

«Papà», disse sommessamente, «voglio che tu venga fuori da lì sotto.»

13

E di nuovo le sirene ulularono a Tarrytown. Quella volta, però, convergevano su un’Annie che non stava per essere trasportata all’ospedale. Era viva, in buona salute, anche se ossessionata di trovarsi sopra la tomba del padre.

Le auto della polizia frenarono con uno stridio di pneumatici, fermandosi nel parcheggio del motel. Ne scesero i rappresentanti della legge che Elmer Greer, il quale aveva finalmente trovato un compito, guidò alla «tomba».

Vera e la Neuberger erano con Annie. Larry Birch, avvisato dalla radio della polizia, era corso al motel, restando però discretamente in disparte. Ned McKay era stato informato dal suo detective privato e successivamente convocato dalle autorità; ma aveva ritenuto più prudente non farsi vedere.