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«D’accordo», acconsentì Washington. «Andremo giù ancora un po’.» Ritornò al lavoro, assieme all’aiutante.

Vera guardò ansiosa Annie. La testa della piccola ciondolava. «È così tardi», disse rivolta alla Neuberger. «Forse è meglio che la riporti al motel.»

«No», si oppose la Neuberger. «Potremmo averne bisogno qui. Potrebbe avere un’altra visione. In quella squallida stanza sarebbe inutile.»

Vera non obiettò.

Intanto il televisore all’Empire era stato spento e la voce di Peter Falk non giungeva più tra gli alberi. Il traffico sul ponte era diminuito, come sempre accadeva a quell’ora di notte, così anche quel rumore si era affievolito. Alla fine, un silenzio quasi assoluto dominò la scena. Le pile delle torce stavano esaurendosi e la visibilità si faceva più scarsa.

Vera avvertiva una sensazione sempre più pressante d’impotenza mista a paura.

E in quel momento… Washington si fermò.

«Che cosa c’è?» chiese la Neuberger.

Il sergente non le rispose. Si girò invece verso l’agente che lo aiutava. «Fammi luce qui», gli disse con un tremito improvviso nella voce.

Vera e la Neuberger si fissarono a vicenda.

Washington scrutò nella fossa, guidato dal raggio tremolante della pila. Vera, d’impulso, scattò in avanti, anche lei per guardare. «Non vedo niente», disse.

«Pietra frantumata qui giù, signora», le spiegò Washington.

«Che cosa significa?»

«È quello che accade quando la terra viene smossa con la vanga.»

«Le vostre vanghe?»

«No, Mrs. McKay. Quel punto lì non l’abbiamo toccato affatto.»

La constatazione colpì Vera come un pugno. Di colpo, senza pensarci, strappò la vanga dalle mani dell’agente e cominciò a scavare freneticamente.

«No!» gridò Washington.

«Lo troverò!» proruppe Vera, irrigidendo le mascelle. Saltò dentro la fossa. «Se è qui sotto, lo troverò.»

Sembrava un’invasata, le mani strette sul manico della vanga, le vene sporgenti, la pelle di un pallore cadaverico.

La Neuberger era strabiliata, Washington stupefatto.

La terra volava via a raffiche. Vera sembrava quasi ringhiare mentre lavorava con una velocità febbrile. Washington cercò d’intervenire per aiutarla. «No», lo bloccò Vera. «Voglio farlo da sola, adesso. Se l’hanno messo qui sotto, sarò io a tirarlo fuori!»

Washington si tirò indietro e rimase a osservare, nel raggio delle torce che stava indebolendosi.

Vera si affannò per quattordici minuti, con il fiato pesante, pieno di sospiri, sussulti e colpi di tosse. Poi, le mani tremanti di terrore, si fermò e fissò il punto dove stava scavando.

Lasciò cadere la vanga e indicò.

«Lì!» disse con un’espressione mistica sul viso contratto.

Washington si avvicinò lentamente alla fossa. Guardò dentro e vide un brandello di stoffa azzurro pallido, a righine sottili. «Sembra far parte di una manica», osservò preoccupato.

Allora, quasi repentinamente com’erano esplosi, il vigore selvaggio e la determinazione abbandonarono Vera. Si appoggiò alla vanga e cominciò a singhiozzare irrefrenabilmente. «Non posso!» gridò.

Washington si affrettò a farla uscire dalla fossa. La condusse vicino ad Annie e alla Neuberger. «Cerchi di riposarsi, adesso, Mrs. McKay», le disse con dolcezza. «Ce ne occupiamo noi.»

Ma il freddo Washington, il tetragono poliziotto che si vantava di non farsi mai prendere dall’emozione, si accorse che stava tremando. Poteva esserci un corpo lì sotto. La bambina poteva aver ragione. Guardò il suo aiutante, un agente di vent’anni, ancora alle prese con l’acne giovanile, e gli lesse la paura sul volto.

Comunque Washington aveva un lavoro da fare. Prese la vanga e si calò con prudenza nella fossa. Con il tocco preciso di uno scultore saggiò la terra attorno al pezzo di stoffa per vedere se fosse attaccato a qualcosa. Sì, era attaccato, non veniva via. Scese con la punta di qualche centimetro. Con una delicatezza sempre più crescente l’enorme callosa mano di Washington guidò la vanga finché, di colpo, incontrò qualcosa di duro. Grattò con l’attrezzo, cercando di mettere a nudo l’ostacolo.

Il sergente deglutì: fissava carne umana pietrificata.

Abbandonò la vanga. Con espressione cupa tornò da Marie Neuberger, che era discosta da Vera un due o tre metri. «Signora», le bisbigliò, «abbiamo trovato resti umani.»

La psicanalista annuì: lo aveva previsto.

«Forse, signora, sarebbe meglio che Mrs. McKay si allontanasse…»

«L’accompagnerò al motel», disse la Neuberger. «Lei non scavi più finché non torno. Devo essere presente.»

«D’accordo, signora.»

La Neuberger si avvicinò a Vera. «Vera», le disse, «penso che dobbiamo rientrare. È meglio.»

Vera, ancora singhiozzando sommessamente, la fissò, quasi rabbiosa. «L’hanno trovato!» Prima che la Neuberger riuscisse a rispondere, scattò in piedi e si slanciò verso la fossa.

Washington le si parò davanti di scatto, facendola quasi cadere. «Non guardi, signora!»

«Voglio vedere. Lui è mio, non vostro!»

«Signora, non è più come prima!» Afferrò Vera, tentando di bloccarla.

«No!» urlò lei. Si divincolò e corse sull’orlo della fossa. Guardò dentro, nel buio. «Fatemi luce!» ordinò. Washington capì che non si poteva fermarla. Si avvicinò alla fossa e vi diresse il raggio della torcia.

Vera guardò dentro, con reazioni dapprima esitanti. La vista della carne rinsecchita non sembrava ancora scuoterla. «Voglio vedere di più», disse con calma.

Washington si calò dentro piano e cominciò a rimuovere altro terriccio. Apparve la sagoma di una spalla.

A Vera si mozzò il fiato e le gambe le si piegarono.

La Neuberger si mosse per sorreggerla.

«Ancora!» insisté Vera con voce quasi soffocata, in un parossismo di agonia.

Washington esitò un attimo, poi continuò. Il contorno di un uomo affiorò, a mano a mano che la terra veniva rimossa. Vera aveva riguadagnato un minimo di controllo, ma teneva gli occhi chiusi mentre Washington lavorava.

Alla fine il sergente fu pronto a scoprire la testa del morto. Alzò lo sguardo su Vera. «Tenga chiusi gli occhi, signora.» Poi, quasi religiosamente, rimosse un po’ di terra.

La testa, pensò Washington, risultava notevolmente ben conservata, come se una forza superiore fosse intervenuta perché la prova del delitto rimanesse intatta. L’identità della salma non lasciava dubbi. Washington riconobbe Harry McKay dalle fotografie delle persone scomparse. «Ho finito, signora», disse sommessamente a Vera.

Con lentezza, con solennità, lei aprì gli occhi, prima guardando davanti a sé, quasi riluttante a riconoscere quel corpo. Ma poi abbassò la testa, puntando gli occhi umidi di lacrime dentro la fossa illuminata dalla torcia. Contemplò il volto, pietrificato, rigido, eppure intatto nei lineamenti. «Harry», disse con voce sommessa, quasi infantile.

Poi svenne.

I poliziotti la trasportarono al motel, mentre Washington, tornato alla sua auto, lanciò per radio un messaggio, uno solo, raramente trasmesso nella pacifica Tarrytown.

All’alba sul luogo della fossa c’era il caos.

Cronisti e fotografi si accalcavano dietro le transenne di legno per vedere meglio. Automobili provenienti dal Tappan Zee deviavano per costeggiare il posto, dopo aver sentito al giornale radio del rinvenimento della salma di Harry. Gente che affluiva in macchina da Tarrytown, alcuni con macchine fotografiche, altri che si passavano la voce. Rapidamente si sparse la notizia che i cadaveri erano due.

Gli ospiti del motel elargirono alla stampa i particolari della corsa di Annie nei boschi e ci volle ben poco perché il fatto divenisse di dominio mondiale. Ancora una volta Annie era una celebrità. Vera e la Neuberger la tennero al sicuro nel motel, nella camera sorvegliata da una squadra di poliziotti di Tarrytown. «No comment», era la sola risposta autorizzata di fronte alle domande della stampa.