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«Be’», rispose Laval, «la nostra attuale diagnosi…»

«È cieca?»

Laval sospirò, un lungo, profondo sospiro. «Ora come ora, non ci vede bene. Non sapremo per un po’ se è una condizione permanente o temporanea.»

Vera si limitò a fissare Laval, odiando per un attimo l’uomo che le dava quella notizia. Poi si afflosciò sulla sedia, battendosi le ginocchia con i pugni. «Ma ha solo sette anni!» gemette. «La mia piccola ha solo sette anni!»

Ned sembrava tramortito, disperato. «C’è qualche speranza?» chiese.

«Speranza, una parola che può molto», rispose Laval. «Ma sì, la speranza c’è. Abbiamo coperto gli occhi di Annie con dei bendaggi per evitare che la luce diretta li danneggi. Le stiamo somministrando energici antibiotici, con il controllo di uno specialista. Non voglio che vi culliate nelle illusioni, ma, certo, esiste la possibilità che la cecità possa essere temporanea. Non abbiamo ancora localizzato l’area effettiva del danno, se sia nel cervello o nel sistema ottico. Questa malattia è anomala. Ma stiamo impiegando le terapie migliori a nostra disposizione.»

«Quando sapremo?» domandò Vera.

Laval fissò il soffitto, poi Vera. «Esattamente, non posso dirlo. Le prossime ventiquattr’ore saranno quelle critiche.»

«Sandy», intervenne Ned, «non vorrei offenderti, ma…»

«Dovremmo chiamare a consulto altri medici?» lo interruppe Laval, completando la frase per lui.

«Be’, sì.»

«Non mi offendi, stai tranquillo. Se occorreranno altri specialisti non esiteremo a convocarli.»

«Quando potrò vedere Annie?» chiese Vera, trasalendo alla parola «vedere» che all’improvviso assumeva un significato terrificante.

«Adesso», rispose Laval. «Ma solo per qualche minuto.»

Ned aiutò dolcemente Vera ad alzarsi. Appoggiandosi al suo braccio lei uscì lentamente nell’atrio gelato e seguì Laval verso il pronto soccorso. All’improvviso ebbe davanti un’intera famiglia in lacrime, il padre era appena morto per un infarto, e lei avvertì una strana felicità. Perlomeno, la sua Annie respirava.

Arrivò al banco dell’accettazione, bianco e freddo. «Aspettate qui», disse Laval e si avviò nel reparto degenti.

Tutt’intorno Vera scorse disperazione e sconforto. Il piccolo locale dell’accettazione era pieno di gente seduta su nude panche di legno, in attesa di notizie. Molti avevano parenti coinvolti in incidenti d’auto dovuti alla pioggia torrenziale. Altri, venuti da un quartiere popolare non lontano, aspettavano di sapere che cosa ne fosse stato delle vittime di qualche sparatoria. Alcuni offrivano un contrasto quasi comico con quella scena: aspettavano infatti il loro turno per farsi togliere schegge di vetro o un bruscolino dall’occhio.

All’improvviso echeggiò un grido altissimo. Vera e Ned videro una donna di mezza età in preda a un attacco isterico scortata fuori del reparto degenti dal marito stravolto. Vera lanciò uno sguardo interrogativo verso il banco dell’accettazione.

«Scossa elettrica», spiegò la bionda infermiera alla scrivania. «Ha perso il figlio. Diciassette anni. Ha toccato un cavo elettrico abbattuto.» Riprese a riempire moduli. Lutto e dolore facevano parte della sua routine.

Laval fu di ritorno. «Seguitemi, prego», disse. Guidò Vera e Ned lungo uno stretto corridoio imbiancato a calce fino a un piccolo complesso di stanze. Arrivarono alla E21, una cameretta privata proprio di fronte a un refrigeratore d’acqua.

«È qui», annunciò Laval. «Mi raccomando, massimo silenzio.»

Scorgeva la paura sul volto di Vera, che esitò un attimo prima di avvicinarsi alla porta.

«D’aspetto… è cambiata?» domandò.

«A parte il bendaggio sugli occhi, ci sono le bottiglie della fleboclisi. Il che è normale.»

Ned non smise di sostenere Vera, mentre entrava pian piano nella stanza. Senza piangere, fissò la piccola, il suo visetto pieno e paffuto, il naso a patatina, i biondi capelli ricciuti.

La testata del letto di Annie era rialzata, tenendo la bimba in posizione semiseduta. Dormiva, con la testa girata sulla destra. Vera trasalì al voluminoso bendaggio sugli occhi e alla enorme camicia da notte dell’ospedale che si arricciava sulle spalle della figlia. Annie appariva tranquilla, pensò Vera, ma pallida, e respirava con qualche affanno. Vera non dovette chiedere perché le sponde di metallo del letto fossero rialzate. Annie aveva avuto una convulsione incontrollabile nell’ambulanza e chissà quante altre al pronto soccorso.

Vera e Ned si accostarono al letto in punta di piedi, mentre Laval attendeva sulla porta. Con mani gentili, la donna sistemò la camicia da notte e sfiorò la pelle di Annie. Era più fresca e asciutta di quanto non fosse stata in ambulanza. Vera cercò di non guardare le bende.

«Ciao, tesoro», sussurrò, tentando un sorriso.

«Non credo ti possa sentire», disse Laval.

«Soffrirà ancora?» domandò Vera.

«Un po’, forse», rispose Laval. «Ma abbiamo farmaci per calmare il dolore.»

Con espressione vacua, Vera volle sapere. «Glielo… direte?»

«Quanto le abbiamo somministrato la terrà semincosciente. Le spiegheremo soltanto che la teniamo al buio finché non sappiamo come curarla definitivamente.»

Poi Vera, in piedi e fissando il vuoto, cominciò a muovere le labbra come se pregasse. Nessuno osò intervenire. «Tanto varrebbe che fosse morta», gemette Vera alla fine, poi cadde in ginocchio e strinse convulsamente le sponde di metallo del letto.

Le permisero di rimanere, lasciandola a vegliare a lungo dopo che Laval se ne fu andato. Ned restò con lei finché anche lui fu costretto ad andarsene per concedersi qualche ora di sonno, con la promessa che sarebbe tornato la mattina presto. Ma Vera era decisa a non muoversi dall’ospedale finché Annie non si fosse svegliata. Voleva essere la prima a parlarle, a consolarla, ad alleviare il suo terrore.

Seduta al capezzale di Annie, Vera lottò contro l’impulso disperato di abbandonarsi a un pianto isterico, mentre nuove e terribili visioni le affollavano la mente: Annie che avanzava a tentoni, tastando il pavimento con un bastone; Annie con un cane-guida; Annie che leggeva in Braille. Vera, tentando di farsi forza davanti all’ipotesi peggiore, immaginò Annie con lo sguardo vuoto dei ciechi.

Poi, alla fine, si afflosciò su una sedia e cominciò ad assopirsi, tornando sempre con il pensiero ai nitidi mormorii di Annie nell’ambulanza. «Lei avrà cura di noi. Ci proteggerà lei.»

E di nuovo Vera si chiese chi fosse colei da cui Annie si aspettava protezione per loro due.

3

Vera, finalmente, si addormentò. Fece solo un unico sogno: il sogno ricorrente di essere paurosamente sola sulla terra, di camminare lungo vie e di entrare in negozi senza trovare nessun’altra persona viva. L’aveva sognato già molte altre volte, specialmente in tempi difficili. Alimentava la sua paura di non avere assolutamente affetti che la sostenessero. Quel terrore della solitudine che spesso aveva paralizzato le sue decisioni e la sua indipendenza. Era sempre stata felice che il suo tenero marito prendesse le decisioni e che in quel momento, in modo diverso, si occupasse di lei suo cognato. La malattia di Annie, rifletté, la obbligava a tentare di essere forte, di decidere come madre e come padre.

Si svegliò alle 8.53 e si guardò attorno.

Annie non c’era più. Il letto rifatto sembrava attendere un nuovo paziente. Le avrebbero forse taciuto che Annie era morta?

Vera si slanciò nell’atrio, scontrandosi in pieno con un’infermiera che portava un vassoio colmo di cibo. I piatti volarono via e l’infermiera per poco non cadde.

«Signora, è matta?» strillò la donna.

«Dov’è mia figlia?» implorò Vera, afferrando l’infermiera e scuotendola.