Accorsero infermiere e inservienti a liberare la donna dalla stretta di Vera e trattenendo quest’ultima. «Si calmi!» le ordinò un negro gigantesco e Vera ebbe paura.
Occorsero solo pochi minuti perché qualcuno scoprisse che Annie era stata trasferita in una stanza normale nel reparto pediatria. «Settimo piano», disse brusca a Vera una capoinfermiera dai capelli grigi. Poi aggiunse con maggior dolcezza: «Lei appariva così stanca e sfinita che hanno pensato bene di non svegliarla».
Vergognandosi un po’, ma con l’ossessione di Annie, Vera corse all’ascensore. Mentre lo aspettava si guardò a uno specchio. Occhiaie pesanti e livide, capelli in disordine, vestito spiegazzato. Si sentì sporca e sudata, ma prima di ogni altra cosa voleva verificare come stava Annie. Cominciò comunque a ravviarsi i capelli con la mano, ma la porta dell’ascensore si aprì rumorosamente e lei vi si infilò.
Il portello si riaprì al settimo piano. Vera ne uscì a precipizio, per trovarsi subito davanti il banco di formica bianca dell’infermiera di guardia. Questa, una ragazza dai fiammeggianti capelli rossi, parve stupita per una visitatrice così mattiniera.
«Dov’è Annie McKay?» ansimò Vera. «Sono sua madre.»
L’infermiera consultò un elenco. «È qui, ma adesso lei non può entrare.»
«I casi urgenti non possono essere visitati anche fuori orario?»
«Sì, ma adesso c’è dentro il dottore.»
«Il dottor Laval?»
«Sì. Voglia attendere.» L’infermiera le indicò una panca.
«Mi dica solo come sta», la pregò Vera.
«Procede bene», rispose l’infermiera con un ampio sorriso. «Fuori pericolo.»
«Gli occhi?»
«Non lo so, signora. E la cartella clinica l’ha il dottor Laval.» Di nuovo, e più esplicitamente, le indicò la panca.
Vera si sedette, ma continuò a guardare da una parte e dall’altra nell’atrio. Il corridoio era bianco a pois colorati. C’erano anche dipinti sulle pareti pagliacci e animali. Ogni porta era di colore differente con applicata sopra una decalcomania di un personaggio di Walt Disney. Un’atmosfera accogliente e gaia. Ma la mente di Vera rimaneva fissa sul fatto che Annie non poteva nemmeno vedere quelle allegre decorazioni.
Con le mani strette in grembo sbirciò lo sproporzionato orologio di Topolino sopra la scrivania dell’infermiera. Di tanto in tanto, ma con frequenza, vedeva passare un bimbo su una sedia a rotelle, o altri piccoli ingessati o con cicatrici da operazione. Un’infermiera assisteva una bambina cieca, che tastava il pavimento con un bastone, ai suoi primi passi nel buio. Vera distolse lo sguardo dalla piccola testa bionda, ma il ticchettio del bastone le rimbombava nelle orecchie a mano a mano che la piccola si avvicinava.
Vi fu un tonfo sordo quando la bimba urtò contro un muro, un tintinnio quando il bastone picchiò contro un carrello. Vera deglutì penosamente.
Finalmente Laval uscì da una delle camere, evidentemente affaticato. Si muoveva lentamente, trascinando più del solito la gamba offesa.
Vera si alzò, con il cuore che batteva con violenza, poi vide un mezzo sorriso sulle labbra di Laval.
«Mi dica», lo pregò.
«Buone notizie!» annunciò Laval. Per la prima volta dopo molte ore l’ombra di un sorriso illuminò anche il viso di Vera. «Sta mostrando notevoli progressi.»
«Gli occhi?»
«Il bendaggio è ancora su, naturalmente, ma mi riprometto di toglierlo tra non molto. Annie è stata abbastanza lucida da dire che vede qualche ombra. Lo considero un ottimo sintomo.»
Sollevata, ma esausta, Vera si rimise a sedere, mentre le sue emozioni ondeggiavano tra l’euforia e l’apprensione. «Non è che possa… peggiorare?» domandò.
«Vera», ribatté Laval, dandole un colpetto sulla spalla, «c’è sempre la possibilità di una ricaduta. Ma Annie sta mostrando notevolissimi segni di ripresa.»
«Quando posso vederla?»
«Le infermiere stanno procedendo ad altri esami e io devo visitare un bambino, ma sarò di ritorno tra meno di mezz’ora. Penso che allora potrai vederla.» Dette un’occhiata al suo orologio.
Vera gli sorrise. «Grazie», gli disse. «Grazie di cuore.»
Ned arrivò un po’ più tardi e trovò Vera che aspettava nella stanza dei giochi. Era riuscita a lavarsi la faccia e a pettinarsi. Ned portava dei regali per Annie: una scatola di cioccolatini e un cagnolino di pezza, peloso, soffice e imbottito. Almeno, aveva pensato, Annie quello poteva sentirlo. A Vera, il cognato parve ancora più disfatto e teso di Laval.
«Come sta?» le chiese subito.
Vera riuscì a sorridergli. «Molto meglio. Sandy Laval è appena andato via. Ha detto che tornerà tra una ventina di minuti e allora potremo vedere Annie.»
Ned le si avvicinò e la baciò sulla guancia. «Finalmente una buona notizia. Non ho chiuso occhio.»
«Siediti», gli ordinò Vera. «Dove hai trovato regali a quest’ora?»
«In un emporio aperto tutta la notte. Spero che ad Annie…»
«Ne sarà felice. E da quanto dice il dottore sarà anche in grado di apprezzarli. Io ho fiducia in Laval.»
«Sì», annuì Ned. «Anch’io. E anche Harry l’aveva.» Poi, dopo una brevissima pausa, aggiunse: «Come vorrei ci fosse anche lui».
Vera fissò il pavimento e non rispose. Il suo desiderio di Harry era struggente. Ne poteva avvertire la presenza tangibile, sentirne praticamente lo spirito tagliente, ma bonario. Poteva vederlo, come se fosse lì, dirigersi alla reception e chiedere di Annie. Sapeva che Ned riteneva di doversi sostituire ad Harry nei confronti di Annie, con tutte le sue capacità e nei limiti raggiungibili da un uomo.
Vera riferì a Ned quanto aveva detto Laval. E poi rimasero seduti in silenzio, aspettando il ritorno del medico.
Vera lo vide, all’improvviso, sgusciare oltre la porta, diretto alla stanza di Annie. Scattò in piedi, pronta a seguirlo. Laval le sorrise.
«Voglio fare un esame preliminare», le spiegò senza neanche fermarsi. «Vi chiamerò io il più presto possibile.»
Vera tornò a sedersi.
Stare vicino a Ned le infondeva fiducia. Mentre Harry era gioviale Ned aveva sempre avuto un’indole decisa. In città era considerato il più equilibrato, il più responsabile dei due fratelli McKay. E probabilmente era vero. Quando Harry era stato poco più che ventenne, Vera lo aveva saputo molto prima di conoscerlo, era andato via da casa per andarsene a Topeka, nel Kansas, per un anno. I McKay sapevano dove si trovava, ma più tardi lui aveva troncato ogni rapporto con i suoi. A Tarrytown erano giunte voci che si fosse dato ad attività di compravendita, a transazioni sbrigative e forse scarsamente ortodosse. Vera sapeva che la condotta di Harry costituiva ciò che zia Matilda chiamava eufemisticamente «i segreti di famiglia». Ma lei li aveva accettati e aveva imparato a vivere con essi. In quel momento, ascoltando i pianti dei bambini nella corsia, vedendo con la mente Annie che giaceva a letto con gli occhi bendati, pregava che Harry tornasse a Tarrytown, come aveva già fatto una volta.
Venti minuti più tardi, l’infermiera dai vistosi capelli rossi fece capolino nella stanza dei giochi. «Il dottor Laval vi aspetta», comunicò con voce morbida e cantilenante.
Vera e Ned si alzarono di scatto, tanto che il cane di pezza cadde per terra. Ned lo raccolse in fretta e, insieme con Vera, si affrettò verso la stanza di Annie. Automaticamente Vera si ravviò i capelli con la mano e cercò di riassettarsi il vestito gualcito. Il momento era speciale; lei sperava fosse anche miracoloso. Se Annie ci vedeva Vera voleva assolutamente apparire il più presentabile possibile.
Laval andò loro incontro nel corridoio. «Adesso cercate di capire», spiegò, «non spaventatevi per il suo aspetto. Le abbiamo cambiato il bendaggio che ora è più pesante. Inoltre non è ancora cosciente del tutto. Può darsi che non vi riconosca subito. Ricordatevi, il suo fisico ha subito uno choc non indifferente ed è ancora sofferente.»