Выбрать главу

EPILOGO

Vera non avrebbe avuto pace finché quella domanda non avesse avuto risposta. La domanda che dominava i suoi pensieri, i suoi progetti, i suoi discorsi. Anche dopo che Marie Neuberger se ne fu tornata a Manhattan, Vera continuò a telefonarle ogni giorno, alla ricerca febbrile di un modo qualsiasi per scoprire l’identità della bambina morta nel Kansas. Da Larry Birch aveva appreso che ormai le autorità di Topeka sapevano chi era, l’avevano fatta seppellire, ma non erano riusciti a rintracciare nessun parente. Finché non l’avessero trovato il nome della defunta restava segreto.

«Forse non lo saprà mai», le fece osservare la Neuberger, parlando al telefono nella propria cucina oscura e ben rifornita.

«Ma non riesco a togliermelo dalla testa. Perché lo spirito di quella bambina era così strettamente legato a quello di Harry?»

«Questo non lo so», le rispose la Neuberger. «E sapere chi fosse può anche essere controproducente.»

«Venga con me nel Kansas», la implorò Vera. «Forse andando là di persona…»

«Ma lei ha già scritto più di una lettera.»

«È molto facile ignorare le lettere», ribatté Vera. Il suo atteggiamento, la Neuberger lo capiva, rifletteva una determinazione nuova, un nuovo spirito di fiducia in se stessa che era andato aumentando dopo che l’incubo era finito.

«Conosco bene questi burocrati», disse la Neuberger. «Loro non pensano. Sanno solo quello che c’è nei regolamenti. Non mi va l’idea che lei si faccia tutto quel viaggio per subire una delusione. Che potrebbe essere grossa e angosciarla.»

«A questo sono preparata», insisté Vera. «Non possono ferirmi più di quanto non lo sia già stata.»

«Questo sì che è coraggio! Sono fiera di lei.»

«La prego, venga con me, allora», la supplicò di nuovo Vera. «Perlomeno è una possibilità. Forse troviamo una scappatoia alle leggi locali. O forse c’è il modo di aggirarle. Se ci mettiamo a discutere con calma con quelli là e…»

«D’accordo, d’accordo», finì con il dire la dottoressa. «Vengo con lei, ma soltanto sotto il profilo del rapporto tra medico e paziente, questo sia chiaro.»

«Naturalmente», concordò Vera. Anche se le probabilità le erano nettamente sfavorevoli, il fatto che la Neuberger fosse disposta ad accompagnarla nel Kansas le causava un enorme ottimismo. Almeno qualcosa si faceva. Non aveva mai rinunciato alle proprie speranze.

Il viaggio fu programmato per i giorni immediatamente precedenti il Natale.

C’erano sei gradi sotto zero quando Vera e Marie Neuberger arrivarono a Topeka. Subito dopo avere prenotato una camera in un albergo modesto, ma pulito, le due donne si recarono dal funzionario preposto agli archivi del Dipartimento di polizia di Topeka, con il quale avevano preso appuntamento.

Rodney Earl Seivart governava il suo piccolo impero da un improvvisato ufficio al terzo piano della centrale di polizia. Era in effetti un piccolo locale già adibito a magazzino, adiacente alla sezione archivi. Una parete della stanza era costituita da una rete metallica e chiunque passasse per il corridoio poteva vedere esattamente quello che Seivart stesse facendo.

«Speravo che non veniste», disse Seivart a Vera e alla Neuberger, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Non posso fare nulla per voi. Nessuno può fare nulla, neanche il sindaco di Topeka. La legge è chiara, signore.»

«Non si potrebbe fare qualcosa… in modo non ufficiale?» gli domandò Vera.

«Mi sta chiedendo di infrangere la legge, signora?»

«No, non esattamente. Be’… sì, un piccolo strappo alla regola. Lo si fa continuamente, ne sono certa.»

«Forse a New York», ribatté Seivart, intrecciando le mani dietro la nuca e guardando fuori dell’unica squallida finestra. «Ma non qui. Siamo molto ligi, a Topeka.»

«Non ne dubito», rispose Vera, cercando di essere gentile, ma ribollendo per il comportamento di Seivart.

«Mi scusi», intervenne la Neuberger, «posso farle una domanda?»

«Certo», disse Seivart. Squadrò la Neuberger dalla testa ai piedi, sul punto di scoppiare a ridere per gli abiti fuori moda che lei indossava.

«Se conoscere l’identità della bambina morta risultasse utile alla mia attività professionale, non potremmo intenderci? Quasi tutti gli Stati aiutano la ricerca scientifica.»

Seivart sorrise. Un sorriso noncurante che dimostrava ogni assenza di comprensione. «Signora, il suo tipo di ricerca non è riconosciuto qui da noi. Inoltre la legge non prevede la cosa.»

«Lei ne è proprio sicuro?» gli chiese la Neuberger.

«Conosco la legge a memoria. Vuole che gliela citi?»

«No no no. Ce la risparmi.»

Seivart si alzò bruscamente. «Se non c’è altro in cui possa essere utile, signore…»

«Non è disposto ad aiutarci in nessun modo?» gli domandò Vera.

«Nel caso specifico, no, ormai è chiuso. Ora, se permettete, avrei un altro impegno.»

Un agente scortò, quasi spinse, fuori dell’ufficio e della Centrale Vera e la Neuberger. Le due donne si trovarono sul marciapiede, senza avere concluso assolutamente nulla. La loro prima giornata a Topeka era finita male.

La stessa storia si ripeté più e più volte. Andarono dal capo della polizia, dal coroner della Contea, ebbero perfino un breve abboccamento con il vicesindaco. Larry Birch fece in modo che i giornali locali le intervistassero e uno pubblicò un succinto editoriale sollecitando il consiglio comunale a fare un’eccezione alla legge circa la notifica ai consanguinei del defunto, visto la speciale natura del caso McKay. Il consiglio rifiutò di prendere in esame la faccenda. Tutti sembravano volere ignorare la richiesta di Vera.

Allora lei si rivolse personalmente alle autorità religiose, ma anche loro se ne lavarono le mani, dichiarandosi incompetenti davanti alla legge. E la Neuberger, la cui reputazione la seguiva ovunque, fece un buco nell’acqua quando tentò di ottenere l’appoggio dell’ordine dei medici di Topeka.

Dopo quattro giorni Vera cominciò a rendersi conto che, probabilmente, non sarebbe mai riuscita a conoscere l’identità di colei che aveva protetto Annie.

La mattina del quinto giorno, lei e la Neuberger stavano nella camera dell’albergo, occupate in silenzio a fare le valigie, quando trillò il telefono. Vera sollevò il ricevitore.

«Pronto?»

«Signora», disse una fresca voce maschile, «parlo con Mrs. McKay?»

«Sì, sono io.»

«Signora, qui è il portiere. È arrivata una lettera per lei e non volevo che la dimenticasse al momento di partire.»

«Oh… grazie», disse Vera. «Da chi è spedita? C’è l’indirizzo del mittente?»

«Un attimo, prego.» L’impiegato prese la lettera dalla casella di Vera e riprese il ricevitore. «Non c’è il mittente. Ma il timbro postale è di Topeka, quindi deve essere stata spedita da qualcuno qui in città.»

«Grazie mille», ripeté Vera.

Chi poteva scriverle da Topeka? Vera non riuscì a dominare la curiosità. Lei e la Neuberger smisero di colpo di affaccendarsi con le valigie e scesero nella hall in ascensore.

Al banco Vera ritirò una busta bianca. Conteneva soltanto un biglietto di carta su cui era scritto: «Tomba 2015. Città».

Un improvviso brivido gelato attraversò Vera, ma, senza mostrare segni esteriori di emozione, passò il foglietto alla Neuberger. Temeva una burla crudele.

Non avrebbe mai saputo che il biglietto era stato spedito da una giovane impiegata di un piccolo ufficio comunale che amministrava il cimitero pubblico. La ragazza aveva letto di Vera sul giornale e si era impietosita. Potendo consultare correntemente, per ragioni di lavoro, le registrazioni tombali, si era presa la responsabilità di rilevare il numero della fossa.

«Dobbiamo andarci… subito!» disse la Neuberger.

«Sì», mormorò Vera.

Le due donne si fecero portare in taxi al cimitero cittadino, in uno dei sobborghi di Topeka. Il camposanto era ben tenuto, con file di piccole lapidi inserite nel terreno, con la numerazione delle tombe. Circa metà delle lapidi portavano l’iscrizione «Sconosciuto».