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Un’infermiera rimise maternamente a letto Annie massaggiandole le braccia per confortarla. «Da brava, Annie», le sussurrò con voce dolcissima, «ti sei presa un bello spavento. Ma non vogliamo che succeda ancora, vero? Perché non…»

Ma Annie di colpo invocò ancora: «Mammina!»

«Ora calmati», insisté l’infermiera Kendall, ripetendo la frase con voce sommessa, mantenendo un tono dolce e cantilenante.

Lentamente Annie si tranquillizzò. L’affanno diminuì. Il battito del cuore tornò quasi normale. Ma, a causa della crisi, era madida di sudore. Restò distesa, fissando il soffitto. «La mia mamma sta bene?» chiese.

«Ma certo», ribatté la Kendall, sorridendo. «Sarà qui tra poco, infatti. Pensi che dovremmo raccontarle tutto questo?»

«Non lo so», rispose Annie. «Avevo tanta paura.»

«Che cos’era?»

«Vedevo dentro la mia testa come un film. La mia mamma guidava la sua macchina. E c’era quell’altra auto. Veniva avanti proprio in mezzo alla strada e verso mia mamma, ma poi l’ha urtata di fianco.»

L’infermiera Kendall scosse la testa, come se condividesse il racconto di Annie. «Scommetto che sei felice che quel sogno sia finito», osservò.

«Non era un sogno.»

«Ma certo che lo era. Un sogno molto, molto brutto.»

«In parte era un sogno», replicò Annie.

«Ecco, lo vedi.»

«No, un momento. L’ho fatto mentre dormivo, ma poi mi sono svegliata e c’era ancora. Era cominciato prima che quell’uomo arrivasse con la sua auto. Volevo avvisare la mamma che stava arrivando.»

«Be’», disse la Kendall, sinceramente commossa, «credo che dovresti dimenticare tutta la faccenda. È stato soltanto un piccolo incubo, tutto qui. Capita anche a me, continuamente.»

«Davvero? E lei che cosa fa?»

«Be’, se mi sveglia, com’è successo a te, sollevo le mani, me le agito davanti e lo faccio andare via.» Le fece vedere. «In questo modo.»

Annie sorrise, ripetendo il gesto.

«Proprio così», approvò la Kendall. «Fai così se qualche brutto sogno ti capita ancora. Okay?»

«Okay.»

La Kendall rimase con Annie, anche se era arrivato il suo turno di servizio.

Vera arrivò poco dopo.

«Mammina!» esclamò Annie vedendola entrare.

L’infermiera intuì immediatamente dall’espressione del viso di Vera che c’era qualcosa che non andava. «Mrs. McKay», le domandò, «non si sente bene?»

Dapprima Vera non rispose. Si diresse da Annie, la baciò, poi si sedette sul bordo del letto. Aveva il respiro corto e le mani tremanti.

«No, non sono malata», rispose alla fine. «Ma la mia piccola per poco non ha perso sua madre. Venendo qui, un’auto ha saltato lo spartitraffico. Mi ha preso di fianco, sul lato guida, strappando letteralmente la fiancata della macchina. Qualche centimetro più a sinistra e…»

La Kendall la fissò a bocca aperta, incredula.

Annie cominciò a tremare e poi a gridare istericamente: «Visto? Visto che avevo ragione?»

«Che cosa succede?» domandò Vera, scossa dalla reazione di Annie.

La Kendall, senza perdere tempo a spiegare, tentò di calmare Annie.

«Avevo ragione!» gridò la bambina. «La mia mamma quasi moriva!»

«No, sto bene, Annie, sono qui con te», esclamò Vera, perplessa e allarmata per l’isterismo della figlia.

Accorsero altre due infermiere a calmare Annie, mentre la Kendall sospingeva Vera nel corridoio.

«La bimba si è agitata», le spiegò, «ha avuto un brutto sogno e, Mrs. McKay, parola mia, quel sogno era uguale al suo incidente.»

Vera impallidì. «È la seconda volta che succede», precisò. «Il primo sogno era pazzesco, ma non si riferiva a niente di reale. Ma questo», proseguì Vera, «è impossibile. Identico al mio incidente? Non può essere.»

La Kendall si strinse nelle spalle e tornò in camera di Annie. «Probabilmente è solo una coincidenza. A volte i bambini sognano le brutte cose che accadono in famiglia.»

Le infermiere calmarono Annie, che però continuava a tremare e a piangere sommessamente. La Kendall, preoccupata, dichiarò: «Faccio chiamare Goodpaster».

«Chi è?» domandò Vera.

«Il nostro psichiatra infantile. Un uomo straordinario, mi creda.»

Qualche minuto più tardi il dottor Carl Rudolph Goodpaster uscì dall’ascensore. Vera lo scrutò mentre si affrettava verso la camera di Annie. Sulla quarantina, alto e molto curato, impeccabilmente vestito di marrone, lo psichiatra aveva un sorriso per tutti.

«Salve, ciao», disse allegramente, passando rapidamente oltre Vera ed entrando nella stanza di Annie. «Allora, qual è il problema?»

Quando la Kendall gli ebbe spiegato Goodpaster fece ad Annie un’iniezione sedativa e la bimba nel giro di qualche minuto si calmò. Il medico le si sedette vicino.

«Allora, signorina», cominciò con voce morbida, «abbiamo fatto un sogno molto brutto.»

«Succedeva alla mia mamma», chiarì Annie.

«Eccome! Ma hai fatto altri brutti sogni, prima, e quelli non sono diventati veri, è così?»

«Sì», rispose Annie con voce sonnolenta per l’effetto del sedativo.

«Sei proprio in gamba.» La voce di Goodpaster si alzava alla fine di ogni frase, quasi una posa per gli adulti, un divertimento per i piccoli. «Vedi? Non devi prendertela. Quasi tutti i nostri sogni non si avverano. Probabilmente, adesso, quando ti addormenterai, farai un sogno bello. Non preoccuparti.»

Goodpaster vide che Annie si stava assopendo, quindi le batté dolcemente sulla testa e si alzò. «Appena torno parleremo un po’ dei tuoi sogni belli», le disse. «Ora fai la nanna.»

Annie chiuse gli occhi. Goodpaster sorrise alle infermiere, compiaciuto. La Kendall lo avvertì che la mamma di Annie aspettava nell’atrio e lui uscì dalla stanza.

«Mrs. McKay», esclamò con calore, tendendo la mano.

Vera gliel’afferrò, annuendo.

«Carl Goodpaster. Sua figlia è una bambina deliziosa.»

«La ringrazio.»

«Si riprenderà benissimo. Senz’altro il dottor Laval le avrà spiegato che i bambini spesso hanno questi piccoli sconvolgimenti psicologici dopo una crisi. Quanto alla coincidenza con l’incidente che è capitato a lei, chi sa? I libri sono pieni di episodi del genere.»

«Mi chiedevo se non si tratti di percezioni extra sensoriali», osservò Vera.

«Potrebbe avere ragione. Sorprendente, a volte, come i genitori sappiano che cosa stanno facendo i loro figli e viceversa. È un argomento da non escludere, Mrs. McKay, ma nulla che riguardi l’ambiente scientifico.»

«Mi toglie un peso.»

«È per questo che sono qui», proseguì Goodpaster, con un sorriso smagliante. «Mi faccia chiamare per qualsiasi, minimo problema. Annie ha attraversato un periodo critico non indifferente. Tutt’e due potreste trarre beneficio da qualche consiglio.»

«Lo penso anch’io», ammise Vera.

Goodpaster se ne andò quasi con lo stesso slancio con cui era arrivato. Suo malgrado, Vera rimase turbata da una sensazione di disagio non appena lo psichiatra l’ebbe lasciata. Non poteva fare a meno di intuire che quello aveva minimizzato qualcosa di serio. Ma scacciò i propri dubbi, sicura che l’ospedale si serviva certamente e soltanto dei medici migliori. E quando sbirciò nella stanza vide che Annie dormiva tranquilla con un leggero sorriso sulle labbra.

Goodpaster attraversò festoso l’atrio, accarezzando teste di piccoli pazienti e ammiccando alle infermiere, diretto verso il suo studio, per consultare l’elenco dei bambini da visitare i cui problemi erano più grandi di quelli che lui avesse mai avuto.

«Mi scusi, signore…»

Goodpaster si fermò e si girò. Quella voce l’aveva già sentita. Si trovò di fronte un uomo grasso e tozzo, dalle guance rosee e dai capelli arruffati, insaccato in un abito blu di dubbia qualità. La tasca della giacca era talmente rigonfia di carte e di penne che la cucitura aveva ceduto.