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Che altro ricordava? Che altro? Un mucchio di cose. Aveva conosciuto i membri di altre unità settigame, gli O’Possum, i Cadillac, i Greypanthers e, oh! anche tutti gli altri. C’era stato un party in giardino, un sabato sera, con rinfreschi, musica, e frivoli addobbi di carta. Gli assistenti del Ricovero avevano chiuso le finestre del patio, avevano provveduto ad isolare acusticamente le stanze del settore di cura intensiva, e poi tutti quanti se ne erano andati in città. Era presente anche il giovane Leland, dietro loro invito, e nessuno dei Phoenix, tranne Paul, se ne andò a dormire prima delle quattro del mattino. Dopo mezzanotte, Toodles aveva trascinato tutti in un’allegra, cacofonica versione di «Ef Ya Gotta Zotta».

Poi, c’erano le domeniche pomeriggio, trascorse da sola con Paul o Luther e qualche volta, ma solo qualche volta, con una delle ragazze. Durante la settimana avevano visitato il Museo d’Arte di Atlanta (— Maledettamente noioso —, aveva detto Paul), la Consolidated Rich’s e i mercatini delle pulci nel parco pedonale. Quindi andarono due volte all’opera (il teatro aveva una struttura circolare), dove videro un paio di olofilm interessanti, approvati dal consiglio. Non furono male: senza trama e un po’ ingenui, ma discreti. Nel loro appartamento del quarto piano potevano proiettare vecchie pellicole bidimensionali; e proprio a cominciare dal giorno dell’arrivo di Zoe, i Phoenix avevano organizzato un ciclo dedicato a Rock Hudson e un seminario scherzoso intotolato «Estetica del Cinema vietato ai minori alla fine del Ventesimo secolo», durante il quale Jerry tolse l’audio e si mise a dissertare in modo parodistico, servendosi del fermoimmagine e di una freccetta indicatrice.

Dopo una di queste lezioni, quando il terrazzo rimaneva a loro disposizione, Luther e Zoe avevano preparato un campo da croquet; e tutti, tranne Jerry, con una temperatura di 23 °C (benché i meteorologi avessero previsto uno o due giorni di frescura), tutti giocarono senza vestiti! Nudi, come diceva Helen. E quella era stata una delle poche occasioni che non richiedevano una particolare attenzione ai dettagli (come cucire, ritirare i piatti, prendere dei libri), occasioni in cui Helen doveva mettersi gli occhiali. Soltanto gli occhiali, se non si conta il braccialetto trasmettitore. L’idea era stata di Toodles, che si era ispirata ad una vecchia antologia di racconti, e Paul l’aveva caldamente appoggiata. Così Zoe, come una ragazza che si volesse abbronzare nei pressi della parete della cupola, si tolse il vestito, la biancheria e le inibizioni, e lasciò che l’aria tiepida accarezzasse la sua pelle sensibile a ogni suo movimento deliberato. Tanta allegria. E nessuna ripugnanza per i loro corpi smunti e avvizziti; c’era invece un’insolita tenerezza che si agitava sotto l’apparente allegria.

Dopo tutto, che importanza avevano i calli, le vene varicose e la pelle flaccida? Zoe aveva una risposta: quella era una conseguenza dell’età e del loro spiccato senso di comunità, sia che fossero maschi o femmine. Infine, quel giorno, si dimenticò delle sensuali carezze del vento della cupola, si concentrò nel gioco, e si arrabbiò moltissimo quando Parthena tirò la palla in una posizione ingiocabile. Sissignore: quella fu una giornata proprio divertente.

E che altro ricordava? Be’, i Phoenix le avevano dato una macchina fotografica per istantanee e lei, per la prima volta dopo dieci o quindici anni, aveva ripreso a scattare foto. Era una vecchia Polaroid, ancora perfettamente funzionante, e la prima idea di Zoe fu quella di ritrarre in bianco e nero i volti della sua nuova famiglia. Foto in posa, alcune di sorpresa, riduzioni e ingrandimenti: ritratti di gruppo, primi piani, sovrimpressioni, meditazioni semiastratte. Le migliori vennero esposte nella sala comune. Questo locale era diventato la Galleria dei Phoenix, la quale fu addobbata su entrambi i lati con due brillanti stendardi trapuntati.

Paul e Toodles andavano molto orgogliosi di alcuni ritratti, e a volte, contemplando i loro preferiti, cadevano quasi in trance: ragazzini che ammiravano se stessi nello specchio. Vanità, vanità, disse qualcuno, ricordò Zoe. Helen invece non si mise mai gli occhiali per guardare la sua immagine fotografata, benché avesse un motivo più valido di quello di Paul o di Toodles. Zoe un giorno le chiese perché. — È da trent’anni che non guardo il mio volto — disse, — perché sono soddisfatta della mia immagine di quando avevo trent’anni, e che ancora conservo qui dentro. — Si batté un colpetto in testa. Poi mostrò a Zoe una vecchia foto che mandava riflessi nella luminescenza della stanza: mostrava una donna la cui innegabile bellezza era quasi disgustosa. — Io posso sentire come sono oggi. — disse Helen. — Non ho bisogno di guardare.

Anche così, le foto di Helen fatte da Zoe non le rendevano un cattivo servizio; infatti, erano oggetto di devota ammirazione da parte degli uomini, e di Paul in particolare… cioè, quando non era ipnotizzato dai propri occhi color ambra, dalla sua immagine proiettata sulla celluloide. Be’, perché no? Le foto di Zoe erano davvero straordinarie, ed era lei stessa a dirlo, in questo confortata dal giudizio degli altri.

Il mese di Primavera si stava avvicinando. Che cos’altro riusciva a ricordare dell’Inverno trascorso al Ricovero? Le visite di Melanie e Sanders. La prospettiva di avere un nipote. Questo pensiero la eccitava, la stimolava come l’aria sul suo corpo nudo, e solo per questo pregustava le visite, due volte la settimana, della figlia e del genero. No, non era vero. Era Lannie che desiderava vedere più di ogni altra cosa, sia che portasse una creatura in grembo oppure no. Sua figlia Lannie era carne della sua carne, nonché del defunto Rabon: era sua figlia. Le riusciva difficile sopportare soltanto il fatuo Sanders, eppure in vita sua, non aveva mai osato chiamarla con un appellativo tanto brutale come strega mummificata. Che cosa avreste fatto, allora?

Dal canto suo, Zoe non andò mai a trovarli nel cubicolo del Livello 3; così, quando venivano a trovarla, per adempiere malvolentieri al loro dovere di figli, lei li riceveva in quel cortile interno dove loro avevano decretato la sua condanna. Questo fatto metteva Sanders a disagio: strascicava le scarpette da passeggio sulla ghiaia e muoveva il capo come se stesse cercando il primo vecchio pazzo del ricovero che avesse voluto sfruttare la posizione favorevole del suo balcone per sparargli con un fucile a pallini o ad aria compressa. Un innocuo passatempo per Zoe, che osservava suo genero con la coda dell’occhio, mentre si informava sulla salute di Melanie, se le fosse passata la nausea mattutina (— Ci sono le pillole per quella, mamma! —), se il test Jastov-Hunter avesse stabilito il sesso del nascituro… e altre confidenze del genere.

Ma lei non aveva mai approfittato della sua libertà per far loro visita al Livello 3, e d’altra parte loro non l’avevano mai invitata. Nossignore. Neppure una volta.

Zoe piegò il capo all’indietro e notò che la navetta che aveva seguito con lo sguardo adesso era scomparsa. Oh Signore, non si era trattenuta sul tetto della Torre un po’ troppo a lungo? Quanto tempo era passato? I Phoenix stavano prendendo una decisione su di lei. Ecco tutto.

Il risultato era forse in dubbio? Mr. Leland l’avrebbe mandata in un’altra unità settigama incompleta (se mai ne esisteva un’altra) a causa di un solo voto contrario? Come Mr. Leland le aveva spiegato, potevano benissimo rifiutarla. Che cosa avrebbe provato nel caso che l’avessero fatto? E se l’avessero accettata, voleva veramente contrarre matrimonio coi Phoenix, unirsi a loro in un nuovo contratto?

Be’, era semplice rispondere a tutto ciò: la risposta era sì: sì, lei voleva sposarsi con Luther, Parthena, Toodles, Paul, Helen e Jerry. E la ragione per cui lo desiderava era altrettanto semplice: ne era innamorata.