— Anche tu hai partecipato alla costruzione? — chiese Zoe. Non aveva mai conosciuto nessuno che lo avesse fatto, o meglio nessuno che lo avesse ammesso.
— Sì. Vi erano impegnate dodici squadre di imprese diverse che lavoravano indipendentemente sulla base di un progetto elaborato da un computer dell’Est o forse della California. Eravamo in ritardo di un anno rispetto a New York e a Los Angeles, dicevano quelli della McAlpine, e dovevamo recuperare. E la stessa cosa dicevano nel ’97, quando mi assunsero, tre anni dopo l’inizio del Progetto Cupola; e mai nessuno chiese perché diavolo avremmo dovuto metterci alla pari con New York e L.A. in questa folle impresa. Prima del progetto, la maggior parte di noi era senza un lavoro: così restammo zitti e cogliemmo al volo quell’occasione di guadagno che la città offriva. Proprio così, Zoe. Incominciammo una piramide, un’enorme e antica tomba in cui barricarci per non uscirne mai più. In Egitto, gli schiavi avevano dovuto lavorare per vent’anni per costruire la Stanza Mortuaria per il Faraone, ma non dovettero poi restare chiusi là sotto. Noi abbiamo fatto di meglio. Abbiamo costruito la nostra in dieci anni, e in modo tale da metterci il coperchio dall’interno. Non c’era nessun Mosè a dirci: «Ehi, aspettate un momento: non vorrete vivere per sempre in questo posto!». Ma noi guadagnavamo discretamente, anche se eravamo pagati in dollari UrNu, e non pensavamo che un giorno non si sarebbe potuta scorgere neppure una piccola porzione di cielo, neppure un po’ di blu per colorare un paio di jeans. Fu un’avventura. Nessuno pensava ad una seconda, faraonica schiavitù. Neppure io. Anche quando mi assunsero nella McAlpine, mi sentivo come se io fossi il capo di chissà cosa.
— Come si svolse?
— Be’, dovevamo salire sulle sezioni dell’impalcatura della cupola già completate, e vi salivamo con le navette, come quelle che di sera vedi sfrecciare con i riflettori accesi. Si lavorava sulle piattaforme o sull’intelaiatura delle navette, e si era sempre lassù, sovrastando l’intera zona, e si poteva vedere ogni cosa, anche quando il vento ti investiva come se volesse ridurre a pezzi e brandelli tutta la tua dura fatica. Il Monte Stone. Parecchi laghi. Le montagne di Gainesville.
«E il kudzu, Zoe, kudzu come non l’hai mai visto o come non riesci neppure a ricordare. Quel rampicante impazzito serpeggiava su ogni cosa, pali telefonici e granai che crollavano al suolo, comprese alcune palazzine della città e i condomini che aveva cominciato ad intaccare verso la fine del secolo. Il mondo intero era diventato verde e stava forse morendo a causa del kudzu, così verde da farti male agli occhi. E là in cima, Luther Battle si sentiva Cheope, Re Tut o qualunque altro di quei bastardi che si fecero costruire le tombe più gigantesche. Ma non mi sono mai chiesto: «Hoooi! Luther, perché lo facciamo?».
Dopo mangiato, Zoe e Luther tornarono al ricovero e presero l’ascensore della Torre per raggiungere il quarto piano. Anche se sulla via del ritorno lungo i cortili pedonali, lei non glielo aveva permesso, ora, nell’ascensore lasciò che lui la prendesse la mano. Dieci anni dopo aver lavorato per la McAlpine, lui aveva ancora le mani callose, o coi segni di vecchi calli. Nell’ascensore era di nuovo imbarazzato, come se la sua conversazione durante il pranzo fosse stata uno sfogo che lo avesse lasciato indifeso e insicuro di sé. Be’, anche lei si sentiva in imbarazzo. Soltanto che Luther aveva un vantaggio: si notava meno quando arrossiva.
Quando furono nella stanza comune, che era rimasta deserta per una sorta di tacito accordo, Luther la condusse vicino al suo letto e fece scorrere i paraventi automatici. Rosolarsi, questo era il termine ora usato dai giovani. E a lei andava bene, anche se aveva qualche riserva su ciò che sembrava suggerire, e non perché Luther fosse un drago ansimante quando lo faceva. No, ma solo perché era passato molto tempo. Rabon era stato l’ultimo, naturalmente, e questa prontezza nell’accettare le regole dei Phoenix la sorprese un poco. Per anni aveva subito un processo di… (qual era la divertente volgarità usata da Melanie?) mummificazione, e non ci si poteva aspettare che lei si liberasse del sudario, dei balsami e degli altri conservanti, e che uscisse da un limbo durato molto a lungo in un solo pomeriggio.
Così quel giorno Zoe provò solo l’amara eccitazione del dolore, nonché la rapidità di Luther. Ma con il passare delle domeniche — la successiva con Paul, quella seguente con Luther, quella ancora dopo con Paul, e così via, secondo l’inclinazione ed una scaletta tutt’altro che rigida — le cose migliorarono. Poiché non era mai veramente morta, non ci volle un tempo così lungo come per l’ipotetica resurrezione di un Faraone. Assolutamente no. Perché lei era Zoe, Zoe Breedlove, e ormai non ricordava più il suo nome da ragazza.
10. Jerry e le sue manie
Che cosa faceva Jerry in quella stanzetta misteriosa, fra la sala comune e quella da pranzo? Zoe si chiedeva perché mai Jerry, non appena aveva un momento libero (dopo mangiato, prima di andare a letto, la domenica mattina) voltava la sua sedia a rotelle con un debole ronzio e si ritirava nella stanza. Jerry si assentava per tutto il tempo che aveva a disposizione: quindici minuti, trenta, o anche un’ora. Ciò che aveva incuriosito Zoe, fu di vedere la sua chioma voluminosa e gli occhi tristi attraversare il corridoio illuminato verso mezzanotte e tornare nella camera comune dopo una di queste frequenti assenze.
Quella domenica notte (anzi, più propriamente lunedì mattina), dopo aver avuto rapporti, sia sociali che carnali, con Luther, la cosa si verificò di nuovo, e Zoe udì l’uomo paralizzato ritornare nella camera fischiettando: — Zippity-Doo-Dah — pareva dire. Poi se ne andò a letto.
Jerry si coricava la sera, pensò Zoe, e la brioche era al pomeriggio. Aveva la mente confusa, in pieno caos. Era qualcosa che riguardava Toodles. E Helen, Parthena e Luther. Solo Paul ne era escluso, per ora almeno. Ma tutti questi Phoenix stavano dormendo.
— Jerry? — chiamò, mettendosi a sedere e appoggiando i piedi sul pavimento.
— Chi è? — Non riusciva più ad intravedere i suoi occhi, ma il casco macrocefalico della sua figura si voltò verso di lei: — Zoe?
— Sì — rispose. — Sono io. Non riesco a dormire. — Si infilò la vestaglia (Sanders le aveva portato al ricovero quasi tutte le sue cose quel sabato pomeriggio, ma non era salito a vederla) e camminò a piedi nudi sul pavimento dell’angolo riservato a Jerry.
I Phoenix potevano continuare a russare. Non c’era pericolo che quelle seghe raschianti cessassero di lavorare; c’era abbastanza rumore da farti desiderare di essere sorda, benché ogni suono fosse diverso dall’altro e piuttosto interessante: un’orchestra variegata. Là un fischio metallico. Là un corno acustico. Laggiù un basso tuba. Quello, un paio di sonagli. E…
Jerry sogghignò sardonicamente e si grattò il naso con un dito. — Non riesci a dormire, eh? Ti va di andare in cucina a bere qualcosa? Magari del vino. Il vino è indicato per l’insonnia.
— Il vino fa bene per molte cose. — commentò Zoe. — Volevo chiederti che cosa fai quando ti comporti così antisocialmente nei nostri riguardi e ti chiudi nello sgabuzzino. — Indicò la porta.
— Sei simpatica. Allora ti farò un quiz con più risposte. A) Sto producendo un elisir dell’eterna giovinezza; B) Sto mettendo a punto un congegno antigravitazionale che spedirà l’intera Atlanta fra le stelle; C) Sto commettendo innominabili crimini passionali sulla custodia di un vecchio telescopio e sul preparato di una scatola di Petri; oppure D) Io… io… Sto diventando matto, mia cara. Scegli, ti prego.
— D — rispose Zoe.
— Come?