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— Molto bene! — strillò Toodles. — Questa s’intitola «Ef Ya Gotta Zotta»! Risale agli anni venti… forza, tutti insiemeee!

E tutti cantarono, con l’orpianola suonata con una mano sola, letteralmente con una mano sola, che pareva l’orchestra di un secolo prima, ormai defunta e dimenticata, di Benny Goodman, quella per intenderci dei gracchiami dischi di vinile. O forse era quella di Glenn Miller. Il ritornello era questo:

Ef ya gotta zotta     Thenna zotta wa me: Durnchur lay ya hodwah     Oh tha furji Marie. Ef ya gotta zotta,     Then ya gotta zotta wa me!

Mio Dio! Zoe ricordava l’intera canzone, ogni maledetta parola dei sette versi. Lei e Rabon avevano ballato sulle sue note; si erano scatenati a quel ritmo indiavolato nella rimodernata sala da ballo di Regency. Mio Dio, pensò: — «Ef ya Gotta Zotta!»

Ma dopo l’ultimo intermezzo del coro, Toodles abbandonò quella retrospettiva del nuovo swing per una puntata in quel terrorismo sonoro che era la musica computerizzata «dura» tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta. All’inizio di questa deliberata cacofonia, il vecchio Paul smise di battere il tempo e la sua bocca si spalancò, come già aveva fatto durante il gioco della reminiscenza rotazionale. Gli altri, Zoe compresa, cominciarono ad agitarsi irresistibilmente nelle loro sedie.

Toodles si mise a cantare quelle strane composizioni, e le cantò con una tale sicurezza che, guardando il suo viso rotondo e dalla mascella pronunciata, nonostante le rughe, i porri e le ridicole labbra chiazzate, ci si accorgeva che stava vivendo ogni nota, sillabando ogni inquietante parola e spremendola allo scopo di scatenare le sue paure irrazionali e quelle del suo pubblico. (Divertente: un film dell’orrore musicale.) Toodles cantava, cantava, cantava. «Incubo del guscio di noce», «Tomba dei Faraoni», «L’onda di marea cremisi» e «Il cielo all’esterno». Quando l’ultima nota dell’orpianola si spense, scrosciarono applausi fragorosi per Miz Joyce «Toodles» Malins-Phoenix, la quale, incredibilmente, arrossì. Anche Paul si unì agli altri, anche se si ostinava a battere i piedi come uno stupido invece di applaudire.

— È il suo primo concerto da quando Yuichan è morto — disse Helen.

— Ancora! — esclamò Jerry. — Ne vogliamo altre!

— Hooooi! — fece Luther. — Non l’ho più sentita cantare e suonare così bene dalla Settimana di Fine Anno del ’38.

— Mi è tornata la stessa voce che avevo a trent’anni — affermò Toodles, girandosi sullo sgabello. — È difficile da credere, e sembra una vanteria ma, per Dio, è la pura verità.

— Puoi dirlo — fece Luther.

— Però non abbiamo finito — disse Parthena. — Concludiamo al solito modo, prima di andare a mangiare.

Toodles fu d’accordo e tornò alla tastiera. Suonò con entrambe le mani, ignorando i pulsanti, gli interruttori, le levette d’intonazione sulla consolle, ed eseguì una vecchia melodia, di quasi duecento anni prima. Cantarono tutti, in armonia. Come per «Ef ya Gotta Zotta», Zoe si accorse di ricordare le parole, tutte quante… ognuna di esse riaffiorava sulle labbra proveniente da un’epoca molto remota, totalmente estranea alla realtà del Nucleo Urbano, di Sanders e Lannie, o di Mr. Leland o del Ricovero Geriatrico. E non era l’età avanzata o la nostalgia a rendere vivido il ricordo delle canzoni (ad alcune cose non si torna indietro volentieri), bensì l’affermazione della sicurezza del presente: questo presente, questo stesso istante. Cantarono:

Laggiù, lungo lo Swanee River     Lontano, molto lontano, Là il mio cuore sempre si volge,     Là dove stanno i miei cari.

Cantarono anche la strofa che parlava di piantagioni, e il verso lamentoso: — Oh, negri, come piange il mio cuore —, compresi Luther e Parthena, i quali non si trovavano affatto a disagio. Un brano di Stephen Foster, ma non era il vero Stephen Foster, perché era eseguito da un’orpianola. Bastoni e pietre, pensò Zoe, e i nomi non potevano mai…

Accidenti, soltanto una settimana prima, in preda ad un momentaneo malessere, sua figlia l’aveva chiamata strega mummificata. E lei aveva reagito con una stupida risata. Che altro avrebbe potuto fare? Quando sei a due passi dal traguardo, tu ridi se i concorrenti che hai battuto ti lanciano degli insulti. Lo devi fare. E nell’esecuzione malinconica di un’opera morta-e-sepolta di un compositore sicuramente morto-e-sepolto, anche Toodles rideva con tutto il corpo. Era a due passi dal traguardo. Tutti loro lo erano. Ma di certo la meta verso cui correvano non era la morte, non come l’intendeva Zoe. Nossignore. Era qualcosa di completamente diverso.

7. Parthena

Quella sera, dopo la festa canora accompagnata dall’orpianola, Parthena, Helen e Jerry si occuparono della cena. E dopo mangiato Zoe li aiutò a sistemare il piccolo locale attiguo alla sala da pranzo (mentre Lannie e Sanders, tre Livelli più sotto, nel loro cubicolo disponevano solo di un cucinino senza sala da pranzo). Era stata una bella giornata, una giornata indimenticabile, se mai ne aveva vissuta una. Non da quando Rabon…

— Sai trapuntare? — le chiese Parthena, dopo aver ritirato l’ultima stoviglia di porcellana. Ma in quel momento l’attenzione di Zoe era rivolta altrove. Jerry, nella sua sedia a rotelle, passava i piatti a Helen, e la donna cieca li sistemava con ordine nell’armadietto di plastica sopra il lavandino. Prima di cominciare, Helen aveva preso dalla tasca un paio di lenti scure, unite apparentemente solo da un ponticello metallico. Munita di questi occhiali, sembrava riuscisse di nuovo a vedere.

Era la prima volta che se li metteva in presenza di Zoe.

— Ehi, Zoe — disse ancora Parthen. — Sai trapuntare?

— Intendi unire i quadrati, e poi cucirli insieme? Può darsi. Esagero sempre, quando parlo delle cose che faccio. Mi piace bluffare.

— Di’ un po’, ancora non sappiamo che cosa sai fare. Dove lavoravi prima di avere il sussidio?

— Fotografia — disse Zoe. — Scattavo foto. Sia soggetti in posa che in movimento. Ed ero anche brava. A dir la verità, qualche foto usciva un po’ mossa.

Tutti risero. Zoe raccontò di come lei e Rabon avessero lavorato in équipe per il Journal/Constitution e per uno dei videomedia affiliati; ma non scrivevano i testi (io non avevo molta istruzione, e Rabon non voleva mettere la sua al servizio di quello scopo), ma si davano da fare con le macchine fotografiche, i video portatili e le varie stampatrici istantanee. Lei se la cavava meglio di Rabon, ma dal ’01 al ’09 si era assentata quattro volte dal lavoro a causa della maternità e lui aveva ottenuto un maggior numero di commissioni in virtù del fatto che, per usare le sue parole, non era suscettibile di gravidanza. Tutto era stato previsto, e dopo la nascita di Melanie il Programma di Cura Infantile UrNu li aveva messi in grado di proseguire la loro carriera. Più o meno. Dovettero impiegare una parte consistente dei loro guadagni perché Lannie potesse essere accudita per quattro ore al giorno, quattro giorni la settimana, mentre lei e Rabon si dividevano le ore restanti, lavorando insieme sempre più raramente. Ma lei e Rabon ci riuscirono, e il fatto che Lannie fosse figlia unica l’aveva resa una ragazza un po’ viziata, qualche volta dolce e più spesso petulante. Quanti ritratti aveva fatto Zoe alla piccola, viziata Lannie. Quella mattina Zoe aveva chiesto per telecom a sua figlia di portarle soltanto i pochi indumenti che teneva in camera, nell’armadietto, nonché le foto appese alle pareti, e Melanie aveva risposto che glieli avrebbe portati: forse Mr. Leland li aveva già ricevuti.