Una tragica domenica di ottobre era programmato La madre di Pudovkin, uno dei film più soporiferi di tutti i tempi.
Il vecchio proiezionista, completamente rincoglionito, aveva messo in macchina prima il secondo tempo non ancora riavvolto e poi, sempre non riavvolto, il primo.
Era un magnifico pomeriggio di sole, c'era nell'aria ancora l'odore dell'estate. Gli intellettuali erano disperati, pensavano alle giarrettiere e alle mutande delle ragazze che scopavano sulle colline. Loro, invece, come topi di fogna, erano condannati a subire l'insopportabile. Nella saletta c'era anche un atroce odore di malga alpina. Solo il due per cento degli intellettuali di sinistra si lavava.
Parte implacabile La madre di Pudovkin.
Prima inquadratura: entra il protagonista, Alioscia; aveva già ottant'anni, era ammanettato; i cosacchi cattivi, quelli con le giacche bianche, lo sbattono contro un muro e lo fucilano. Stecchito!
Gli intellettuali sono disorientati. Si consultano tra loro al buio: «Ma che succede! Hanno fucilato Alioscia…. l'eroe della storia! Sembrava che avesse novant'anni… ma siamo sicuri?».
Seconda sequenza: Alioscia, sui settant'anni, vestito da contadino russo, insegue una popolana che avrà avuto settantadue anni, vestita da contadina russa. La porta dietro una siepe, le alza la gonna e cerca di sodomizzarla. Taglio. Siamo ora sulle rive del Caspio, all'orizzonte biancheggiano le vette del Caucaso. Ed ecco spuntare Alioscia! Avrà avuto al massimo quarant'anni, vestito da contadino russo, sta inseguendo una contadina russa di circa settant'anni (non quella di prima, ovviamente), la porta dietro uno scoglio, le alza la gonna e cerca di sodomizzarla. Finisce il primo tempo in un silenzio tombale.
Secondo tempo.
Alioscia a cavallo sempre sulle rive del Caspio. Avrà avuto ventisei anni, insegue sorridendo un cavallo bianco senza sella. Il cavallo bianco, che non è più giovanissimo, si ferma. Alioscia lo prende per le briglie, lo porta in una stalla vicino al mare, gli alza il gonnellino in cuoio e lo sodomizza.
È sera. Alioscia bambino sta giocando con un fucile a canne mozze, è vestito da bambino russo, spara a un gruppo di cosacchi bianchi, i maledetti controrivoluzionari, e ogni volta che ne abbatte uno fa un segno col gessetto su una piccola lavagna.
Ed eccola, finalmente! La madre! Un primo piano straordinario; sapete quelle facce delle madri socialiste del cinema muto sovietico? Ha una faccia bellissima, ispirata, poi il suo volto si apre in un magnifico sorriso, abbassa gli occhi e la macchina da presa panoramica sul suo ventre. La mamma è incinta, di Alioscia, ovviamente. E poi c'è una splendida dissolvenza sulle montagne innevate del Caucaso.
Fine.
Luce in sala. Gli intellettuali hanno gli occhi pallati, tutti a guardare Baratelli. Baratelli respira a fatica, lo guardano tutti.
«Un momento per favore! Devo riordinare le idee…» Poi minaccia col pugno un intellettuale che lo guarda ansioso: «Mi dii il tempo di pensare, cialtrone!».
Poi, finalmente, un balzo da pantera!
«Questo! Che è uno dei più grandi film di tutti i tempi» si scioglie finalmente la tensione che c'era nella topaia, «dove il grande maestro usa un escamotage geniale, e voi» sottinteso «voi poveracci» «non lo avete capito: fa morire subito il suo protagonista. È questa l'intuizione straordinaria! Lui, Alioscia! Lo fa morire Su-bi-to!»
Era partito ispirato, aveva perso il controllo e ha cominciato a urlare: «Avete capito, imbecilli!? Lo fa morire su-bi-». Non finisce la frase perché dal fondo della sala il vecchio proiezionista gli fa dei gesti disperati. E lui: «Che c'è? Che succede?».
E il vecchio rincoglionito: «Mi scusi» fa con voce da ramarro, «ho fatto una stronzata».
Baratelli con voce da calamaro: «Chi?».
E il vecchio: «Mi scusi. Ho messo prima il secondo tempo e poi il primo».
Baratelli era immobile. Poi, con voce da passero abruzzese: «Prima… il secondo? E poi…».
E il vecchio: «Mi scusi, abbiate pietà di me! Sono vecchio. Se volete m'impicco».
In un silenzio irreale Baratelli tornò al suo posto lentamente. Puzzava come una iena e a mio avviso si era anche cagato addosso. Si lasciò cadere sulla sedia e con la testa bassa disse: «Va bene. Non c'è problema, ce lo vediamo tutto un'altra volta!». Sembrava suor Teresa D'Avila prima di essere portata in manicomio.
Il periodo più creativo della mia vita con Fabrizio è stato l'inverno in cui le nostre mogli erano incinte.
Ogni notte poteva essere la volta buona.
Siamo stati due settimane in attesa a casa mia, in via Bovio, vicino all'orologio del Lido.
Lui conviveva con la sua chitarra e tutte le notti a strimpellare, a inventare. Erano spettacolini senza pubblico, e ne ho un ricordo fantastico! Che bello sarebbe averli registrati e poterli risentire.
La notte del primo novembre 1962 lui mi fa: «Senti che bello», e me lo fa sentire sulla sua chitarra, «è un canto trovadorico. Mi ci scrivi delle parole?».
In sette notti abbiamo scritto Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. Era bellissima, completamente diversa da tutto. E quando, molti anni dopo, l'hanno suonata in chiesa al suo funerale, tutti hanno applaudito. E io ho pianto di nascosto.
Era un bambino nervoso, Fabrizio, un bambino bizzarro; gli stava molto stretta la normalità e faceva di tutto per essere anormale, come se lo programmasse scientificamente, quasi con rabbia.
Noi due, in quel gruppo di giovani di una certa classe media benestante genovese, eravamo considerati come pecore nere, devianti. Eravamo anche fieri di quel ruolo che ci eravamo scelti.
Fabrizio aveva paura di essere una persona normale. Ha sempre avuto il terrore di diventare un avvocato di successo, un borghese di successo, una persona normale di successo. Se non fosse diventato un grande com'è diventato sarebbe stato un ribelle, un terrorista, o uno scassinatore di banche. Insomma, una persona assolutamente anormale. Aveva l'animo teppistico dell'uomo contro, contro tutto ma, soprattutto, contro la normalità.
Era un dormitore implacabile, poteva dormire anche fino alle sette di sera. Per svegliarlo, io e un altro amico avevamo messo in atto un sistema terrificante: caduta da tre metri di dieci pentole di alluminio; poi, aprendo la finestra della stanza nella quale si era barricato, due spari di fucile da caccia in aria. Lui non si alzava ma urlava: «Andate via farabutti! Lasciatemi dormire o mi butto in strada!».
Amava il paradosso, il vivere in maniera esagerata, il vivere da artista. L'immagine che ne ha il pubblico è quella di un poeta triste, e invece era di un'allegria e di una simpatia unica. C'era una cosa che ci legava, la grande spinta, la grande voglia di riuscire a emergere. Fin da giovani abbiamo sempre sperato che ci succedesse qualcosa, ma sempre in sordina, sempre parlandone solo tra noi e non rivelando mai a nessuno i nostri grandi progetti per il futuro.
Quando il successo è arrivato eravamo entrambi molto increduli, l'abbiamo vissuto senza quel minimo di competizione e di invidia che in genere hai con le persone alle quali vuoi meno bene.
Un po' di anni fa siamo andati a fare il periplo della Corsica in barca.
Le nostre mogli dormono, siamo in rada a Paragnano, uno dei posti più belli del mondo, è notte fonda e gli domando:
«Faber» come lo chiamavo io, «ma a questo punto mi puoi dire se hai la sensazione di avercela fatta?»
«Guarda, te lo dico perché qui non ci ascolta nessuno. Io credo di essere non un cantante, non un uomo della musica leggera, non un menestrello, non un cantautore, come si dice in maniera riduttiva: io credo di essere un grande poeta.»
Ecco, io vorrei che questo rimanesse di lui, perché lo penso fermamente. Nelle biografie c'è una specie di conformismo nel piazzare tutti in determinate categorie. Fabrizio non è il padre dei cantautori italiani, Fabrizio è uno dei poeti più importanti di questo secolo.