Certo che avere un amico come lui era una fatica e un tormento, ma anche una delizia. Le sue preoccupazioni erano finte, erano teatralizzate, erano autoindotte. Io lo voglio ricordare come uno dei miei amici più fraterni, il mio amico più amico, il mio amico più di vecchia data, il mio amico più simpatico, il mio amico più intelligente, il più genovese dei miei amici, il più caro ma, soprattutto, quello più dotato di grande talento. Ecco, vorrei che tutti lo ricordassero non come Fabrizio De André, il cantante triste, ma come Faber il grande, veramente grande poeta.
Quando abbiamo finito di scrivere Carlo Martello abbiamo deciso di andarlo a vendere a Milano alla casa discografica Ricordi. Lui si era svegliato come sempre verso le nove di sera, non c'erano più treni ne altri mezzi per partire. Allora mi ha proposto: «Chiedo a mio fratello se mi presta la macchina. Glielo chiedo per pietà, gli dico che è un fatto di vita o di morte. Lui capirà. Poi guidi tu, perché io non ho la patente».
Suo fratello aveva una spider gialla, che amava moltissimo, e gli ha detto: «Va bene, però mi raccomando, eh! Se solo la rigate vi ammazzo!».
Siamo partiti alle undici di sera. Al casello di Sampierdarena c'è un frate cappuccino che ci chiede un passaggio. Io vado via dritto cercando anche di metterlo sotto, e Fabrizio: «Ma sei pazzo! Era un cappuccino, forse un sant'uomo. Torna indietro per favore!».
«Ma siamo sicuri? Dove lo mettiamo? Dietro c'è solo spazio per un topo.»
«Ci vado io dietro!»
Inversione a U. Fabrizio nella zona topo e il cappuccino spaparanzato davanti. Dopo seicento metri Fabrizio dice: «Ma che succede? Hai pestato una merda, o ti sei cagato addosso?».
«No!» dico io, e mi controllo con qualche difficoltà le suole dei mocassini. Cominciamo a guardare il frate con una certa ostilità. Poi Fabrizio: «Scusi, padre, ma lei o è malato, o in convento segue una dieta sbagliata».
«Perché mi domanda questo?»
«Ma allora lei ha una malattia al naso!? Mi vien da vomitare! Frena!» dice rivolto a me. «Frena perché mi sembra di essere in un letamaio della Bassa Engadina… sto male!»
Fermo la macchina ai bordi della strada, Fabrizio apre la portiera e dice al frate: «Fuori, per favore. Scenda!».
Il cappuccino con tono da giovane collegiale del Poggio Imperiale di Firenze: «Non la capisco, sa?».
E Fabrizio urlando: «Scendi, porca puttana! Sto male, ho delle visioni, manie di persecuzione e miraggi!».
Lo scaraventiamo fuori.
Alle due di notte siamo arrivati a Milano. Un deserto terrificante. Seguendo le tracce di alcune prostitute in via Larga siamo andati a dormire in una fetida topaia con l'insegna luminosa Grand Hotel Siviglia. Una stella! Il portiere, un certo Fabio, dormiva della grossa. Aveva un alito come se avesse bevuto una tazza di merda.
«Desiderano?», e a Fabrizio, che era più vicino, gli ha fatto una mèche biondo chiaro sul ciuffo.
Era stato, ai tempi di Faruk, portiere al Semiramis del Cairo e ne aveva conservato i rituali. Ha detto: «Chiamo il facchino!», e si è infilato una giacca da facchino.
«Non abbiamo bagaglio» ho detto io, «ci dii una stanza, per pietà.»
«Un momento! Allora dovete parlare con il capo ricevimento», e si è tolto la giacca da facchino. Poi, con voce da tenore turco: «Dite a me! Sono il vostro uomo».
«Una stanza» ha ripetuto Fabrizio disperato, «ci dii una stanza.»
Lui si è infilato una giacca da cameriere a righe.
«Eccomi! Sono il cameriere, vi porto su io.»
Siamo entrati in una stanza di quattro metri quadrati. C'era un odore pestilenziale.
«Qui ci ha dormito quel cappuccino di merda di questa notte!» ha detto Faber preoccupato.
Al Grand Hotel Siviglia c'era un andirivieni di puttane come alla Ginza di Tokyo nell'ora di punta. Arrivavano con clienti di varie taglie ed età ma, soprattutto, delle etnie più disparate. C'era solo una sottile paratia di cartone che ci separava dalla topaia accanto. Era la stanza di una prostituta di origine tedesca.
«Preco, preco! Fieni qvi e si siedi. Non facci quella fiso da pampino.»
Il cliente era un messicano: «Yo soy muy embarazado, yo soy de Vera Cruz. Primera vez…».
«No proplema. Io adesso faccio federe sorci verde. Perché facci pompino.» Dopo venti secondi abbiamo sentito un rantolo. Era come se fossero nella nostra stanza.
«Pviaciuto?»
«Mucho, mucho.»
«Pene, pene. Ora fai fia.»
È uscita quasi subito. Dopo tre minuti è risalita in stanza con un toscano di Pienza, certo Landò.
«Te pviace pompino?»
E il toscano: «Hai voglia!».
«Poi metto anche carota ti tietro.»
Dieci secondi: «Ecco carota!» ha detto lei, e Landò ha fatto una specie di gorgoglìo terrificante.
Sei minuti. Lei risale con un libanese, certo Hassan: «Tu piace pompino?». Passano infruttuosamente nove minuti. Allora Fabrizio si alza, bussa alla parete di cartone e consiglia: «Signor Hassan! Provi con la carota!».
«Ciusto!» ha detto la tedesca. Dodici secondi. Un urlo tipo sirena di traghetto che entra a Ostenda in una notte di nebbia. Lui va via e la tedesca bussa alla parete e dice: «Crazie per consulenza!».
Quella è stata una notte allucinante nella quale siamo stati eletti consiglieri ufficiali di quella signora. Senza mai vederla siamo diventati anche amici. Si chiamava Trudi, era di Amburgo e viveva nella zona di Blankenesen, sull'Elba. Era stata violentata nove volte: dal padre, dallo zio, da sei passanti e, alla fine, anche da un cavallo ungherese. Sconcertata per quell'ultimo episodio aveva deciso di venire a vivere in Italia.
Fabrizio ha dormito fino alle nove di sera. Quando siamo arrivati alla Ricordi i cancelli erano già chiusi. Siamo ritornati verso Genova. Al casello di Melegnano c'erano alcuni camionisti che cercavano di accoltellare il cappuccino. Fabrizio mi ha detto subito: «Scusa se parlo poco ma ho un sonno della madonna!».
Io respiravo a fatica. A Serravalle ho creduto di vedere la Madonna nera di Chestokowa che faceva l'autostop. Ho cominciato a dormire al volante. La macchina, che era intelligente, scendeva lentamente da sola verso il mare. Ma alla curva maledetta di Ronco Scrivia anche la macchina ha perso il controllo: testa-coda lunghissimo, prima la parete in pietra della camionabile di destra, poi la parete in mattoni a sinistra, poi ancora la parete in pietra: due volte, poi abbiamo sfiorato un'autobotte che, per schivarci, è caduta dopo un volo di trenta metri sul fiume Scrivia, poi una cannonata finale sulla parete di mattoni. Ci siamo risvegliati. Eravamo seduti all'aria aperta, c'erano solo i sedili. Avevamo disseminato con pezzi di carrozzeria gialla gli ultimi tre chilometri. Lasciato il cadavere della macchina sul posto abbiamo fermato un camioncino: «Ci porta a Genova, per pietà? Siamo malati!».
«Prego, salite!» ha detto il conducente, un anziano, «così siamo in quattro!» Aveva una maschera antigas della Seconda guerra mondiale. Dietro c'era seduto il cappuccino.
L'indomani era sabato. Abbiamo dovuto svegliare Fabrizio con il sistema delle pentole e del fucile da caccia.
Il fratello gli ha detto: «Dov'è la macchina? Ché voglio andare in Riviera».
Fabrizio ha abbracciato suo fratello e gli ha detto: «Sei veramente un uomo fortunato, sai?! C'hai un culo! Non ci siamo fatti quasi niente. Illesi! Neppure un graffio!».
Il fratello non ha risposto e gli ha sputato in faccia.
Io ho vissuto due periodi diversi a bordo delle navi della Costa Crociere: il primo, il più felice, da povero; il secondo, da ricco.
De André suonava la chitarra in prima classe, terrificava i passeggeri cantando di morte, di prostitute e di suicidi. Io arrancavo facendo l'intrattenitore. Ero negato. Ho fatto dei disastri memorabili. Il punto più basso: la pesca del cucchiaio nella piscina di prima classe.