A duecentoventi chilometri da Roma la ragazza singhiozzava ancora debolmente. Lui si mette una sigaretta in bocca e dice: «Nessuna paura! Accendo con l'accendino dell'auto», e schiaccia un bottone a caso. Si chiudono entrambi gli sportellini dei fari e nel buio più completo lui perde, urlando, il controllo dell'auto e cominciamo il più lungo testacoda della storia dell'automobile. Trovato l'interruttore dei fari ripartiamo.
Si ferma a un distributore: «Il pieno, per favore! Posso pagare con la carta di credito?».
Il benzinaio, che dormiva, aveva una faccia da killer e io gli sussurro: «Ti conviene, però, dargli un po' di mancia».
Quando quello restituisce la carta di credito lui tira fuori dal portafogli un biglietto da centomila lire: «Non c'ho il resto».
«Tenga tutto!»
«Grazie, signor Tognazzi, veramente grazie! Lei è proprio straordinario!»
Ripartiamo, e lui: «Avete visto che esagerazione? Ma vi rendete conto? Per diecimila lire?».
E io con molta prudenza: «Ugo, guarda che gliene hai date cento!».
Lui fa una frenata di quaranta metri. Controlla nel portafogli.
«Torniamo indietro!»
La ragazza ricomincia a singhiozzare. Il distributore era chiuso. Siamo andati per campi a suonare nei casolari. Una contadina, addormentata, da una finestra ha detto: «No! Il benzinaio non abita in zona. Torna lunedì!».
Ancora verso Roma. Albeggia. Vedo che lui comincia a stringere il volante in maniera innaturale, ansima leggermente.
«Che succede?» gli domando.
E lui, con voce da suora: «E stato quel maledetto yogurt gelato che m'ha fatto bere questa scema al grill di Sasso Marconi», e ha indicato con la testa la ragazza al suo fianco.
«Ce la fai?»
E lui, rantolando: «Non lo so. Ho dei dolori tipo parto. Ancora tre minuti e sono spacciato!».
Fortunatamente, in fondo al rettilineo, quasi un miraggio. Un distributore aperto. Lui si ferma, scende a fatica, e camminando alla Frankenstein va verso il bar illuminato. Ansima penosamente e dice al barista semiaddormentato: «Abbiate pietà, la toilette?».
Quello gli fa un gesto villano con la testa. Si trascina quasi ululando verso una porticina, entra e accende la luce. C'era solo un piccolo lavabo.
Dopo un'ora entro al bar con la ragazza a cercarlo. Eravamo preoccupati. «Ha visto dove è finito quel signore?» E il barista, sempre incazzato, indica la porticina. Busso sommessamente. «Tutto bene?» La sua voce sembrava quella di un dromedario. «No. Una tragedia. Mi sono cagato completamente addosso!» «E allora?»
«Andate avanti voi… lasciatemi morire qua. Ci vediamo a Roma… fra cinque anni.»
C'è stato un periodo che Gian Maria Volonté stava sempre nella mia barca a Bonifacio. Era inverno, il tempo magnifico. Una mattina siamo arrivati con il mare completamente piatto a Sainte Florence.
Volonté ha detto: «Che meraviglia! Questo posto è il più simpatico della Corsica!».
Sulla banchina c'era un tizio. Gli abbiamo tirato le cime di poppa: «Siete italiani? Sono Franco Bartoni di Aosta!».
Abbiamo ormeggiato e siamo scesi; e lui, con accento piemontese: «Eccolo qua! Monsù Volonté!». Sembrava un atroce imitatore di Macario. «Son passati i tempi belli! Eh! Ormai siamo alla frutta! Un tempo sì che faceva dei film importanti. Purtroppo ora… lei mi fa molta pena, sa? Lei mi fa molta pena, sa?»
Volonté mi si è avvicinato e mi ha sussurrato all'orecchio: «Ti prego, andiamo via. Non vorrei fare una sciocchezza!».
Ci siamo staccati e quasi a tutta manetta siamo scappati senza salutarlo. Lui correva sulla diga e urlava: «Volonté, lei mi fa molta pena, sa?! Lei fa veramente pena, sa?!».
Quando eravamo fuori dal porto, abbiamo visto che quello si avvicinava a un'altra barca con bandiera italiana. Sono venuti fuori i passeggeri, uno scambio di parole e, tolti gli ormeggi, sono scappati anche loro.
In serata, era la vigilia di Natale, siamo arrivati a Cala Gavetta alla Maddalena dove Volonté abitava anche d'inverno.
«Ho un'idea splendida» mi ha detto. «Facciamo Natale qua. Un Natale pagano» ha aggiunto poi sorridendo. A casa c'era la sua compagna di allora, con il fratello.
«È un filoamericano di merda…» m'ha detto, «ma a Natale me lo devo sorbire tutto fino in fondo!»
Il mattino dopo era la Vigilia. Alle sette Volonté ha detto: «Vi voglio preparare il tacchino!».
E siamo usciti.
«Ma dove lo trovi un tacchino natalizio qui sull'isola?»
«Purtroppo alla base americana. Quegli stronzi ne hanno centinaia in questo momento. Sono tacchini del Kentucky da quaranta chili.»
All'ingresso della base lui si muoveva con la prudenza di un commando israeliano per le vie di Bagdad: non voleva farsi vedere dai locali. Si è avvicinato alla sentinella e a testa bassa: «Scusmi, italian turist, possibol tacchin americano? Pago con dollar».
E la sentinella: «Ehi Paisà! Paesano mio! Io ti conoscio. Entrate!».
Per avere il tacchino americano lui ha cercato ignominiosamente di fare il simpatico. Un colonnello dei marine che sembrava John Wayne ha detto: «Questo è famoso fantasista napulitano! State a vedere!». Ha schioccato le dita e ha detto: «Napulitano, fai ballo dell'orso!».
Lui mi ha dato un'occhiata come per dirmi: «Ti scongiuro, non lo dire mai a nessuno! Ma ho bisogno di quel tacchino!». Ha ballato una tarantella tragica, senza musica, per quasi tre minuti. Poi John Wayne: «E ora canta Ai zole mio!».
Lui, in un silenzio orrendo, ha cantato O' sole mio e I' te vurria vasà. È stato un trionfo!
E il colonnello:
«Che avevo detto? Taliano fa sempre paliaccio! Dice cosa e fa altra, mai dice ferità, ma sempre canta: baffi neri, chitarra e mantolino!»
Volonté ha ringhiato sommessamente: «Ma quale mandolino?! Merdaccia!». Vibrava tutto come se fosse in una rampa di lancio, stava per partire con una serie di epiteti e io l'ho stoppato con un'occhiata. Sono arrivati due marine con un tacchino bianco da quarantasette chili, legato al guinzaglio come un cane.
«Vi ringrazio tutti» ha detto Volonté, «siete tutti delle persone straordinarie!» Sorrideva, ma aveva un po' di fiele agli angoli della bocca. Mentre si allontanava il colonnello gli ha urlato dietro: «Ciao, paliaccio! Torna quando vuoi!».
L'attraversamento della Maddalena con il tacchino è stata una delle umiliazioni più grandi della sua vita. I maddalenini ridacchiavano sguaiatamente e lui con il tacchino al guinzaglio: «Poi vi spiego! Poi vi spiego!», e sommessamente aggiungeva: «Stronzi maledetti!».
Non abbiamo avuto il coraggio di ucciderlo, era un tacchino longevo. E vissuto altri dodici anni, e quando lui non c'era, dormiva sul suo letto. L'avevamo chiamato: Paliaccio Taliano.
La primavera dopo abbiamo passato quasi un mese nella cucina della casa di Mario Ceroli, la casa era una reggia e Ceroli il più grande scultore italiano vivente.
Eravamo in molti, tutti seduti a un lungo tavolo di legno, ma c'era, soprattutto, Paul Chaland, uno scrittore parigino che aveva tradotto i miei libri in francese. C'eravamo inventati che quella non era una cucina, ma un vagone della Transiberiana in viaggio verso Omsk. Arrivavano amici e ne andavano via altri. Ci eravamo dati tutti dei nomi russi e turkmeni, ma Volonté chiamava tutti tovarisch. Si commentavano i panorami indimenticabili che si vedevano dai finestrini. Eravamo tutti entusiasti e felici. Al sesto giorno di viaggio, Paul Chaland ha detto improvvisamente a Volonté: «Lei, tovarisch, ha degli occhi da cervo!». E poi, timidamente: «Sei mai stato con un uomo?».
Il compagno Volonté non ha risposto e intanto arrivavano amici che venivano accolti con abbracci e gridolini di felicità. Quando siamo arrivati allo splendido lago Bajkal, che è il più profondo e il più azzurro del mondo, Volonté ha detto: «E il posto più bello che abbia mai visto!