Lui si guardava allo specchio e si salutava col saluto romano. Si guardava e si risalutava. Si risalutava e si guardava. Si salutò un'ultima volta e disse: «Signori, io vado!». E, nel dirlo, fece un gran gesto leonino con la testa, buttandola all'indietro e prendendo una craniata pazzesca contro lo spigolo dell'armadio di mogano, senza un lamento.
Cominciò a scendere trionfalmente le scale.
Prima rampa: perfetta!
Seconda rampa: perfetta!
Terza rampa: un sibilìo sinistro di tacco ferrato.
Fece tutta la terza rampa a nuca, andandosi a schiantare contro la porta di certi signori Anglois, noti disfattisti che sentivano già allora, primo giorno di guerra, Radio Londra. Questi aprirono la porta e fecero soltanto: «Hi, hi, hi!», e richiusero.
Il regime, umiliato ai loro piedi, si stivalò lentamente e, stivali sotto ascelle, finì prudentemente le rampe in calze. A Rosetta, la portiera che dava la cera in fondo alle scale, disse una cosa che la poveretta non capì mai: «Stronza!».
Mio padre era stato richiamato come direttore di tiro in una batteria contraerea sulle colline della città, a Pietra Lavezzara. Arrivò a incursione aerea già cominciata da un'ora e mezza, e disse: «Scusatemi per il ritardo».
Fu guardato con grande diffidenza.
Lui era ingegnere, tirò fuori un regolo calcolatore e cominciò a orientare il cannone che gli era stato affidato: «Puntàt… caricàt… due gradi a destra… uno a sinistra… fuoco!».
Centrò in pieno la prefettura. Si scusò rispettosamente con tutti e disse: «Signori, non perdiamoci d'animo!».
Regolo ancora in mano: «Puntàt… caricàt… ci siamo… fuoco!».
Centrò in pieno l'unico nostro aereo che si era levato a difesa della città.
Cominciarono ad arrivare a Pietra Lavezzara molte minacciose telefonate di protesta.
Alle undici di sera fu mandato via. Lo pregarono di non tornare mai più.
Rientrò a casa che era notte fonda, viso scuro, stivali sotto le ascelle. Corse verso la porta aperta di camera sua senza salutare nessuno e si buttò sul letto… mancandolo clamorosamente! E a mia nonna, che era entrata attirata da quel rumore di ossaglia, disse: «State a sentire, a questo punto, a chi dice qualcosa, ci spacco la faccia!».
E poi quel lunedì pomeriggio quando la nonna Delia fece una lasagnata terrificante. Mio padre ne ingoiò mezza teglia e cadde in letargo. Si svegliò con un urlo agghiacciante in un bagno di sudore, erano le due e trenta, chiese un caffè caldo per svegliarsi, gli portarono una tazza di piombo fuso. Si sentì uno sfrigolio orrendo e un sinistro odore di carne umana bruciata. Disse a fatica: «Sono troppo in ritardo, devo prendere il tram al volo!».
E tutti: «Ma che dici? Non sei attrezzato! Ma che t'importa!».
«Perché?» rispose lui. «Lo fanno tutti!», e si avventò giù per le scale ululando come un guerriero unno.
La notizia si sparse per magia in tutto il palazzo: «Prende il tram al volo! Prende il tram al volo! L'ingegner Villaggio si rischia un tram al volo!».
E su, su per ignoti canali di comunicazione arrivò fino all'ultimo abbaino. Tutti alle finestre come in un teatro elisabettiano. Lui sbucò in strada alle 14,31 e si piazzò davanti al portone attendendo il 23. Ansimava, alzò gli occhi e vide le tribune al gran completo. Salutò tutti con un ampio e sereno gesto del braccio e dalle tribune partì un brevissimo applauso di incoraggiamento. Decise di accendersi una sigaretta, ne tirò fuori una dal pacchetto con mani tremanti, prese un fiammifero, lo accese e se lo infilò in bocca, gettando lontano la sigaretta. Non urlò per orgoglio, ma dalle tribune si capì che la situazione era disperata. Una voce isolata dall'alto: «Coraggio, ingegnere!».
Lui alzò la testa e cercò di dire solo con lo sguardo: «Non vi preoccupate! Non c'è problema!».
Dal fondo della curva, ecco il 23. Occhi fiammeggianti, avanzava ferragliando, minaccioso come un tirannosauro. Il manovratore, carogna, intuì le intenzioni dell'uomo e mise l'otto, cioè «avanti tutta!». Quando il 23 arrivò sotto casa, le tribune erano piombate in un silenzio di marmo. L'ingegner Villaggio, che era in posizione di salto, non tentò subito, ma ebbe una leggera, pericolosissima, esitazione. Fece duecento metri al galoppo, poi, ai duecentocinquanta tentò il tutto per tutto e spiccò il salto: mancò la maniglia clamorosamente e, battendo il mento sul predellino, rimbalzò a volo d'angelo sul carretto di un venditore ambulante di frutta e verdura.
Fu portato al pronto soccorso. Più tardi, mentre cercavano di portarlo in manicomio, riuscì a scappare.
Da quanto vi sto raccontando si direbbe che io abbia una grande nostalgia per la mia infanzia. Non è vero. Non voglio dire che ho avuto un'infanzia infelice, ma un'infanzia mancante di felicità.
La causa? Una grande e morbosa timidezza.
La timidezza è una forma di maleducazione, e quando i genitori si accorgono di questa anomalia dovrebbero scudisciare i figli nella piazza principale.
Mio fratello, che insegna matematica alla Scuola Normale (si fa per dire!) di Pisa, non era solo timido, era veramente anormale.
Da piccolo girava con uno spago al collo dove aveva attaccato una campanellina da cane e teneva in braccio una bottiglia vuota di ceramica bianca, di Vov Pezziol.
Quand'era adolescente rubava nelle case dei vicini. In casa del dottor Casèr, al primo piano, ha rubato una penna stilografica d'oro. Mia madre gliel'ha fatta restituire in pubblico, nel cortile di casa, davanti a tutti i vicini. Lui teneva la testa bassa, ma non faceva trapelare un briciolo di vergogna.
Ha continuato a rubare nei decenni successivi dedicandosi, soprattutto, alle magliette, il suo bottino preferito. Purtroppo non ne trova più della sua taglia, perché negli ultimi quarantanni è diventato anoressico. È forse l'unico caso nella storia della medicina degno d'essere discusso in un congresso mondiale sull'alimentazione. Ma lui preferisce non parlare di questo argomento, perché mi ha confessato che, generosamente, non vuole che la sua malattia si diffonda a macchia d'olio tra tutti i docenti universitari italiani.
Io e lui eravamo così malati di timidezza che non salutavamo mai nessuno ma, provocatoriamente, solo i gatti, i cani e i cavalli. In quegli anni, vicino al Mercato orientale dove abitavamo, c'era un andirivieni di carri a quattro ruote trainati da cavalli, e di cani randagi di tutte le taglie, e tutte le mattine noi a toglierci i berretti di velluto: «Buongiorno, signor cavallo! I nostri rispetti, signor cane!».
Mia madre era disperata, aveva anche minacciato di cacciarci di casa. Lei era di origine piccoloborghese e dava lezioni private di tedesco per arrotondare, ma nella speranza di un'arrampicata sociale non si faceva pagare da una certa signorina Boccardo, una biondina dell'upper-upper class genovese.
Un giorno, a tavola, ha detto minacciosa: «Guardate che oggi, alle cinque, viene la signorina Boccardo. Voi dovete farmi fare bella figura. State fermi dietro la porta, io vi chiamo, entrate, e fate il baciamano… Vabbe'! Proprio baciamano no, ma almeno salutate».
Alle cinque in punto noi eravamo pronti dietro la porta del salotto. Mia madre fa: «Signorina Boccardo, le presento i miei…», stava per dire gioielli, ma poi ha corretto, «i miei ragazzi».
«Bambini!» urlò, «venite a salutare!»
Siamo entrati in silenzio con la testa bassa, occhi chiusi, facce risentite da ramarri.
Mia madre sorrideva, la Boccardo anche.
«Eccoli!» disse mia madre. «Salutate la signorina Boccardo.»
Nulla di nulla.
Mia madre aveva, al pollice destro, un'unghia un po' più lunga, una specie di pugnale.
«Avanti! Salutate!» ci esortò dandomi con il pollice una specie di pugnalata nel costato.
Niente. I due ramarri tenevano le facce a pavimento.
Allora la Boccardo ha detto: «Signora, non si preoccupi, si vede che non ne hanno voglia».