La notizia di quelle elezioni al liceo Doria s'era sparsa in città, e io ho vissuto i primi due anni di università rassegnato e un po' infelice. Prima di quelle due drammatiche elezioni il mio modello era Gary Cooper nei Lancieri del Bengala, poi ho cambiato: Humphrey Bogart in Casablanca. Un pauroso impermeabile bianco di mio padre con bavero alzato, cintura stretta in vita, Borsalino nero in testa, sigaretta all'angolo della bocca (io non fumavo e mi bastava una boccata per perdere quasi i sensi), comunque quella era la maschera. Andavo così conciato a dragare delle povere popolane nei bar di periferia, dove la mia fama di brutto non era ancora arrivata.
Un pomeriggio sono entrato vestito da Bogart al bar Stella, nell'osceno quartiere operaio di Bolzaneto. Era luglio, c'era un caldo della madonna un po' per il bavero alzato, un po' per quell'impermeabile di piombo ma, soprattutto, per quel maledetto Borsalino in testa.
Sudavo come una capra marcia.
La cassiera, un'insignificante rapace sui trent'anni, mi fa: «Desidera?».
«Uscire con lei.»
Sembravo Bogart quando saluta la Bergman vicino al DC3 all'aeroporto di Casablanca. Ma mi veniva da vomitare. Il rapace mi ha guardato un po' divertita: «Se ha la forza di aspettarmi fino alle sette di sera quando finisco, si può mettere lì», e m'indicò una sedia di paglia vicino all'ingresso.
Sono stato quattro ore travestito da Bogart su una sedia che dovevano aver usato i parà di Massu durante la battaglia di Algeri per torturare i prigionieri. I clienti che entravano e uscivano mi guardavano come se fossi appena scappato dal vicino manicomio di Cogoleto.
Alle sette in punto il rapace si alza, viene verso di me, che mi ero assopito, e mi scuote: «Ma che fa? Dorme?».
Sono balzato in piedi urlando: «Chi è!?».
«Andiamo, va'!»
Mi camminava al fianco e dopo dieci metri mi sono accorto che era zoppa. Mi sono guardato intorno per controllare se lì in giro non ci fosse, per caso, qualche mio conoscente.
«Venghi, venghi» le ho detto, «acceleriamo il passo.» E l'ho subito distanziata di una decina di metri.
E lei: «Non corra! Non ce la faccio a starle dietro, non lo vede?».
Ho adocchiato una panchina dall'altra parte della strada e mi ci sono andato a sedere.
«Venghi, venghi, si sedia qui», e le ho fatto il gesto con la mano. È arrivata, si è seduta e io mi sono alzato in piedi. Stavo facendo una sauna orrenda.
«Mi dichi!» le ho detto.
«Ma dire cosa?» disse lei.
E io minaccioso: «Quello che vuole! Ma mi dii un giudizio su di me!».
La poverina mi guardava spaventata: «Ma che devo dire? Non so che dire!».
Ho cominciato a passeggiare in su e in giù: «Avanti! Dichi quello che vuole! Un giudizio qualunque! Accetto tutto!».
Mentre ero di spalle l'ho sentita ridere, e mi sono voltato inferocito: «Che c'è da ridere?».
«Mio dio, così mi fa paura!»
Passa un tranviere, si ferma e dice: «Serve aiuto, signora?».
«No, no. Grazie. Me la cavo da sola.»
Mi guardava e rideva: «Che c'è da ridere? Porca puttana! La prego, abbia pietà, mi dichi sinceramente che cosa pensa di me. E perché ride?».
«Non lo so… ma è che… come parla… come urla… vestito così… la trovo molto buffo. Mi fa ridere.»
Io ho pensato: «Maledetta! Io, Bogart in Casablanca, faccio ridere! Ma va' al diavolo, scema!», e l'ho lasciata seduta sulla panchina.
Due giorni dopo, Bogart. Stessa ora, un altro bar di periferia nella zona operaia di Sanpierdarena. Bar del Metallurgico. Entra Bogart, va deciso verso la cassa. La cassiera aveva una faccia carina e simpatica: «Dica. Che posso fare per lei?».
L'ho presa per mano, dovevo avere anche un po' di febbre: «Venghi via con me!».
La poverina non ha opposto resistenza. E scesa dal suo trespolo ed è stato come fosse caduta per terra. Era una nana!
Dopo una ventina di metri mi ha detto: «Le voglio dire che io sono un po' bassa di statura».
Non ho risposto, ho adocchiato un muretto e l'ho sollevata. Era di piombo. Con un piccolo urletto da sollevatore di pesi bulgaro l'ho fatta sedere: «Allora! Dichi!».
Lei mi guardava divertita.
«Mi dichi, qualunque cosa, ma mi dichi. Che effetto le faccio?»
Non era per nulla spaventata.
«Le posso solo dire che mi fa molto ridere.»
«Chi fa ridere?» ha ululato Bogart disperato.
«Non lo sa» ha detto la nana, «forse non se ne è mai accorto, ma lei è molto comico.»
Ho buttato il Borsalino per terra e mi sono allontanato senza voltarmi, lasciandola sul muretto. Poi, quand'ero lontano, con la coda dell'occhio ho visto che stava cercando aiuto dai passanti per scendere.
Avete capito cosa mi è successo?
Nasco come Gary Cooper nei Lancieri del Bengala, poi ho fatto Bogart in Casablanca, poi ho cominciato a fare il divertente e, purtroppo, nella vita, ho avuto fortuna facendo il clown.
Mi vanto di non avere mai raccontato una barzelletta in vita mia.
Nella mia vita ho avuto due fratelli:
il primo è il mio gemello, che voleva fare il clown. Era ladro, esibizionista, molto tenace e molto intelligente. Era il più bravo di tutta la scuola. Alla maturità classica ha fatto piangere due giovani professori, perché ha tradotto la versione dal latino non in italiano secondo la prassi, ma in greco. Si dice che uno dei due sia andato a fare il missionario in Burundi dove è stato poi bollito dai guerriglieri Tutsi. L'altro si è fatto suora Elisabettiana Bigia, e nello stesso inverno è stato fatto «alla cacciatora» da guerriglieri Hutu.
Mio fratello da grande voleva fare il rocciatore e doveva quindi allenarsi, ma non poteva rinunciare allo studio. Perciò passava pomeriggi interi attaccato con la mano sinistra allo stipite delle porte e ripeteva le lezioni ad alta voce. C'era un andirivieni di vicini e di compagni di scuola, che venivano a vedere quello strano spettacolo. Lui non li salutava, ma era molto lusingato di essere guardato come un fenomeno da baraccone.
Ci piaceva molto giocare a calcio, e ogni venerdì c'era una partita. Lui giocava come centravanti ed era anche molto bravo, ma veniva a una sola condizione: di non parlare con nessuno e di poter ripetere ad alta voce cento versi dell'Iliade, tradotta malamente da Vincenzo Monti. Erano cento versi al giorno, e sembrava una stupida punizione. Ma quella generazione ha esercitato la memoria in maniera implacabile e a distanza di molti anni abbiamo tutti la memoria di un computer.
Lui si presentava in campo, non salutava nessuno e cominciava a ripetere ad alta voce, per esempio, la morte di Ettore nel duello con Achille:
«Cadde, cadde, cadde…» e ripeteva cadde per cento volte, «cadde il, cadde il, cadde il…» per altre cento volte, «cadde il ferito, cadde il ferito, cadde il ferito…», il tutto per i novanta minuti della partita.
Alla fine i ventidue giocatori, l'arbitro, i guardalinee e i pochi spettatori sapevano a memoria la morte di Ettore. Io la ricordo perfettamente tutta dopo cinquantadue anni!
Dato che era sempre preparato non aveva mai marinato la scuola come facevano i comuni mortali. Si vergognava di questa anomalia, e certe mattine veniva davanti ai cancelli vestito da scoiattolo di Cortina. Scarpe da roccia, pantaloni di fustagno e un maglione rosso. Salutava tutti e diceva: «Oggi io devo marinare». Aveva la faccia triste.
Cominciava ad arrampicarsi su un muro di pietra di quaranta metri, sul quale davano quasi tutte le classi del liceo. Ci metteva quasi due ore, due ore nelle quali tutta la scuola era alle finestre: risate, applausi, una vera baraonda. Alla terza marinatura il preside in persona è andato ad aspettarlo in cima alla muraglia. Era uno scemo e con molto imbarazzo gli ha detto: «Senta, Villaggio. Sono qui a chiederle gentilmente, se proprio „deve“ marinare la scuola, di non farsi vedere da queste parti; le consiglio di andare al mare o, in caso di pioggia, al cinema Smeraldo dove fanno dei programmi culturali anche al mattino».