«Tom Baringer?» chiese Caldwell che, nel vedere un cenno affermativo, aggiunse: «Spero che sia andato tutto bene».
«L’operazione sì», rispose il dottor Portland. «Ora non ci rimane che incrociare le dita per il decorso postoperatorio.»
David si scusò nuovamente, dopodiché uscì con gli altri dallo studio.
«Che cos’ha che non va?» domandò.
«Niente, che io sappia», rispose Kelley.
«Non ha l’aria di stare bene.»
«Mi è sembrato depresso», aggiunse Angela.
«Lavora molto», ammise Kelley. «Sono certo che si tratta solo di sovraffaticamento da lavoro.»
Il gruppetto si fermò davanti al suo ufficio e Kelley chiese se c’era qualcosa che potesse fare per rendersi utile, ora che il trasferimento dei Wilson era certo.
«Dovremmo cercare una casa», rispose Angela. «A chi ci consiglia di rivolgerci?»
«A Dorothy Weymouth», le rispose Caldwell e, mentre Kelley annuiva, aggiunse: «È di gran lunga l’agente immobiliare migliore della città. Venite nel mio ufficio che le telefoniamo».
Mezz’ora dopo, l’intera famiglia si trovava nell’ufficio di Dorothy Weymouth, un donnone simpatico e con una vocetta acuta, avvolta in un abito informe che faceva pensare a una tenda.
«Devo ammettere che sono molto impressionata», esordì la donna. «Mentre stavate venendo qui mi ha telefonato il signor Sherwood per dirmi che la banca farà di tutto per aiutarvi. Non capita spesso che il presidente della banca mi chiami prima ancora che mi sia incontrata con un cliente.»
Senza perdere tempo, dispose sulla scrivania un certo numero di foto, chiedendo quali fossero i gusti e le esigenze dei Wilson. «Preferite una casetta di legno in città o una solida costruzione di pietra in campagna? Grande quanto? Pensate di avere altri figli?»
A questa domanda David e Angela si irrigidirono. Fino alla nascita di Nikki non avevano saputo di essere portatori sani della fibrosi cistica, ma adesso era una realtà che non potevano ignorare.
Dorothy, ignara, continuò a parlare e a mostrare foto, finché si soffermò su una in particolare: «Guardate questa, è appena stata messa in vendita. È una meraviglia».
Nel vederla, Angela rimase senza fiato. Prese in mano la fotografia, mormorando: «Questa sì che mi piace» e la passò a David, mentre anche Nikki cercava di sbirciare.
Era una costruzione in mattoni in tardo stile georgiano, con doppie finestre a bovindo su entrambi i lati del portone e un porticato con un frontone retto da bianche colonne scanalate.
«È una delle case in mattoni più antiche della zona», spiegò Dorothy. «Risale al 1820 circa.»
«E qui dietro che cosa c’è?» domandò David, indicando qualcosa sulla foto.
«Il vecchio silo. Dietro la casa c’è una rimessa. Qui non si vede perché la foto è stata presa dal davanti. La proprietà, un tempo, era un caseificio.»
«È meravigliosa», disse Angela, «ma sono sicura che non potremmo mai permettercela.»
«Invece sì, a quanto mi ha riferito Barton Sherwood», ribatté Dorothy. «Inoltre so che la proprietaria, Clara Hodges, non vede l’ora di venderla. Sono più che sicura che riusciremo a strappare un buon prezzo. Comunque, vale la pena di darle un’occhiata. Scegliamone altre quattro o cinque e facciamo un giro.»
La casa degli Hodges venne lasciata sapientemente per ultima. Era situata a circa quattro chilometri dal centro della città, sulla sommità di una piccola collina. L’abitazione più vicina si trovava a duecento metri lungo la strada. Quando imboccarono il vialetto di ingresso, Nikki notò lo stagno con le rane e ne fu immediatamente conquistata.
«Lo stagno non è solo pittoresco, è anche l’ideale per pattinare, d’inverno», disse Dorothy, arrestando l’auto leggermente di lato rispetto alla casa, da dove si poteva vedere anche la rimessa.
Angela e David erano senza parole, intimoriti dalla maestosità dell’edificio a tre piani. Su entrambi i lati del tetto di ardesia si notavano quattro abbaini.
«È sicura che il signor Sherwood pensa che ce la possiamo permettere?» chiese David.
«Assolutamente», rispose Dorothy. «Su, entriamo.»
La seguirono quasi ipnotizzati, mentre lei non la smetteva di parlare, sottolineando tutti i lati positivi e minimizzando alcuni inconvenienti, come la carta da parati che si staccava dalle pareti o il cattivo stato di alcune finestre.
David insistette per vedere tutto e scesero persino in cantina, dove regnavano l’umidità e la muffa.
«C’è uno strano odore, quaggiù», osservò David. «Non c’è per caso qualche problema di perdite d’acqua?»
«Non che io sappia», rispose Dorothy. «È un locale bello grande. Se lei amasse il fai da te, ci potrebbe ricavare un bel laboratorio.»
Angela dovette reprimere la voglia di ridere e di fare battute: era già tanto se David sapeva cambiare una lampadina.
«Non c’è pavimento», osservò lui, chinandosi a smuovere una manciata di terra.
«È un pavimento in terra battuta», spiegò Dorothy. «È molto comune nelle abitazioni così antiche, come pure altre caratteristiche, come questa» e aprì una pesante porta di legno che dava accesso a un locale fornito di scaffalature per le conserve e di bidoni per mele e patate. La scarsa luce proveniva da un’unica lampadina. «Questo era il magazzino delle vivande, una volta», spiegò.
«Mette paura», commentò Nikki. «Fa pensare a una prigione sotterranea.»
«Può fare comodo, se ci vengono a trovare i tuoi genitori», scherzò David, rivolto alla moglie, «potremmo metterli a dormire qui».
Lei alzò gli occhi al cielo.
Dorothy mostrò loro con orgoglio anche un congelatore, in un angolo della cantina, commentando: «Vedete? Ci sono le comodità del passato e anche quelle moderne!»
Poi aprì un’altra porta che dava su alcuni gradini di granito che conducevano a una botola. «Da qui si arriva al cortile posteriore. Ecco perché la legna per i camini si trova qua», spiegò indicando un’ordinata catasta di legna addossata alla parete.
L’ultima cosa che mostrò loro nella cantina fu la grossa caldaia che faceva pensare a quelle delle locomotive e spiegò: «Un tempo andava a carbone, ma è stata convertita a gasolio».
David annuì, anche se non capiva granché di caldaie. Mentre risaliva verso la cucina, annusò ancora l’aria e si informò sulla fossa biologica.
«È a posto», rispose Dorothy. «L’abbiamo fatta ispezionare. Si trova sul retro, se vuole può controllare lei stesso.»
«Se è stata controllata, sono sicuro che va bene», disse lui, che non avrebbe saputo da che parte cominciare.
Dorothy li riportò in città, lasciandoli davanti alla banca, dove vennero ricevuti quasi subito da Barton Sherwood.
«Abbiamo trovato una casa di nostro gusto», gli comunicò David.
«Non mi stupisce, con tutte le belle case che ci sono qui a Bartlet», commentò lui.
«La proprietaria è Clara Hodges e chiede duecentocinquantamila dollari. Che cosa ne pensa la banca della casa e del prezzo?»
«È una signora casa», fu il parere di Sherwood, «e la posizione è favolosa. La conosco bene, perché confina con la mia proprietà. Quanto al prezzo, credo che sia un vero affare.»
«Ma la banca sarebbe disposta a farci un mutuo per quella cifra?» chiese Angela che voleva essere proprio sicura. Le sembrava troppo bello per essere vero.
«Naturalmente, voi offrirete di meno», rispose Sherwood. «Suggerirei un’offerta iniziale di centonovantamila dollari, ma la banca è disposta a concedere un mutuo fino alla cifra richiesta.»
Un quarto d’ora dopo, i Wilson uscirono nel caldo sole del Vermont. Era la prima volta che compravano una casa ed era una decisione storica, ma la scelta di trasferirsi a Bartlet li aveva messi nello stato d’animo adatto.