«Ebbene?» chiese David.
«Non potrei immaginare nulla di meglio», rispose Angela.
«Potrò persino avere una scrivania in camera mia», esclamò Nikki.
«Con tutte quelle stanze, potrai anche avere uno studio tutto per te», le disse David, accarezzandole la testa.
«Facciamolo.» Angela era decisa.
Tornarono da Dorothy, che telefonò a Clara Hodges e si mise d’accordo per un prezzo di duecentodiecimila dollari. Poi cominciarono a riempire i documenti ufficiali. Angela e David erano eccitati, ma anche un po’ timorosi, perché, con quell’acquisto, avrebbero raddoppiato i loro debiti.
La firma del contratto di compravendita era stata fissata per la fine del pomeriggio e Dorothy diede loro qualche piccolo consiglio per i lavoretti necessari. «Pete Bergan è capace a fare un po’ di tatto, non è un’aquila, ma lavora bene. Per dare il bianco io ricorro a John Murray, se vi serve una baby sitter per Nikki, mia sorella Alice Doherty sarebbe felice di farlo. È rimasta vedova qualche anno fa e abita dalle vostre parti.»
«È un suggerimento molto utile», affermò Angela. «Lavorando tutti e due, ne avremo bisogno quasi tutti i giorni.»
Più tardi quel pomeriggio, i Wilson ritornarono alla loro futura proprietà insieme a Pete e a John, che avevano già contattato. Si misero d’accordo per una pulizia generale, un minimo di imbiancatura e piccole riparazioni.
Dopo un’ultima visita al negozio di ferramenta, per permettere a Nikki di dire arrivederci a Rusty, iniziò il viaggio di ritorno a Boston, con Angela al volante e David e Nikki che fantasticavano ad alta voce sulla nuova vita che li aspettava.
Dopo essere rimasto un po’ in silenzio, David ripensò al dottor Portland e ne parlò con la moglie, chiedendosi se non fosse sproporzionata la reazione che aveva avuto per essere stato svegliato.
«A me è sembrato depresso», fu l’opinione di lei.
«Non è stato molto cordiale nemmeno la prima volta», le ricordò David. «Tutto quello che voleva sapere era se io gioco a pallacanestro. C’è qualcosa in quell’uomo che mi mette a disagio. Spero che condividere l’ambulatorio con lui non si riveli spiacevole.»
Arrivati a casa si guardarono intorno, stupiti di avere potuto vivere quattro anni in uno spazio così ristretto.
«Questo appartamento potrebbe stare tutto nella biblioteca della casa nuova», fu il commento di Angela.
Lei e David decisero di mettere al corrente i rispettivi genitori della decisione presa. Con quelli di lui non ci furono problemi: abitavano nel New Hampshire e furono contenti di sapere che sarebbero stati più vicini a loro e alla nipotina.
Quelli di Angela ebbero tutt’altra reazione.
«È facile uscire dall’ambiente universitario, ma poi è difficilissimo rientrarvi», sentenziò suo padre. «Avreste dovuto chiedere un parere a me, prima di prendere questa stupida decisione.»
«Tuo padre si è dato molto da fare perché ti facessi una posizione qui a New York», rincarò la dose la madre, «e tu hai sciupato tutto.»
Dopo avere riattaccato, Angela guardò suo marito. «Non mi hanno mai incoraggiata», gli disse, «quindi suppongo che non avrei dovuto aspettarmi di vederli cambiare adesso.»
6
Lunedì 24 maggio
Traynor arrivò in ospedale un po’ in anticipo per la riunione del pomeriggio e, anziché dirigersi direttamente verso l’ufficio di Helen Beaton, andò nell’ala che ospitava i pazienti, salendo al secondo piano e arrivando fino alla stanza 209. Respirò a fondo, poi aprì la porta. Nonostante fosse presidente del consiglio di amministrazione dell’ospedale, non sopportava di trovarsi a contatto con la malattia.
Entrò nella stanza in penombra e si avvicinò al grande letto ortopedico su cui giaceva Tom Baringer, il viso grigio, la respirazione difficoltosa, un tubo di plastica che gli portava l’ossigeno nel naso.
Provò a chiamarlo, dapprima molto piano, poi alzando un poco la voce, ma Tom non si mosse.
«Non è in grado di rispondere.»
Traynor sobbalzò e impallidì. Credeva di essere solo con il malato.
«La sua polmonite non reagisce alla cura», disse ancora la persona seduta nell’ombra in un angolo della stanza. Aveva un tono rabbioso. «Sta morendo come gli altri.»
«Chi è lei?» chiese Traynor.
L’uomo si alzò in piedi e solo allora Traynor si accorse che indossava gli indumenti da sala operatoria, sui quali portava un camice bianco.
«Sono Randy Portland, il medico del signor Baringer.» Nel dire così, si avvicinò al letto e fissò il suo paziente che giaceva in stato comatoso. «L’operazione è stata un successo, ma il paziente sta per morire. Suppongo che abbia già sentito questa battuta, prima d’ora.»
«Penso di sì.» Traynor era nervoso. Quell’uomo si comportava in maniera strana e non si poteva prevedere che cosa avrebbe detto o fatto.
«L’anca è stata rimessa perfettamente a posto», spiegò il dottore, sollevando il lenzuolo perché l’altro potesse vedere. «Non ci sono stati problemi, ma purtroppo si è trattato di una cura fatale. Non c’è modo che il signor Baringer esca vivo di qua.» Lasciò ricadere il lenzuolo e sollevò su Traynor uno sguardo carico di sfida. «C’è qualcosa che non va, in questo ospedale e io non ho intenzione di accollarmi tutta la colpa.»
«Dottor Portland», intervenne Traynor con una certa esitazione, «non mi sembra che lei stia bene. Magari dovrebbe farsi vedere da un collega.»
Il medico gettò indietro la testa e rise, una risata priva di gioia che terminò all’improvviso com’era cominciata. «Forse ha ragione, forse lo farò», disse e uscì dalla stanza.
Traynor rimase sbalordito. Capiva che ci potessero essere medici coinvolti emotivamente con i pazienti, ma Portland gli era sembrato proprio fuori di testa.
Dopo avere provato ancora una volta, inutilmente, di farsi udire da Tom, se ne andò anche lui e si affrettò verso l’ufficio di Helen Beaton. Caldwell e Kelley erano già lì.
«Conoscete il dottor Portland?» domandò sedendosi.
Tutti annuirono e Caldwell rispose: «È uno dei nostri, un chirurgo ortopedico».
Traynor riferì dello strano incontro che aveva appena avuto con lui, concludendo: «Penso che sia distrutto per le condizioni di Tom, ma ha detto qualcosa sul fatto che non vuole accollarsi tutta la colpa e che c’è qualcosa che non va nell’ospedale».
«Penso che sia sotto stress per il troppo lavoro», replicò Kelley. «Ci vorrebbe un chirurgo in più, ma i nostri sforzi per assumerne un altro finora sono stati vani.»
«Mi è parso malato. Quando gli ho consigliato di farsi vedere da un medico, ha riso.»
«Farò una chiacchierata con lui», promise Kelley. «Magari ha bisogno di prendersi una vacanza e possiamo sempre far venire un sostituto per qualche settimana.»
Traynor sembrò soddisfatto e propose di iniziare la riunione, ma Kelley gli rivolse uno dei suoi smaglianti sorrisi e disse: «Prima c’è una cosa di cui vorrei parlare. I miei superiori sono rimasti molto male per la mancata autorizzazione alle operazioni a cuore aperto».
«Anche noi siamo molto dispiaciuti», replicò Traynor, con un po’ di nervosismo. Non gli piaceva cominciare da una nota negativa. «Purtroppo non possiamo farci niente. A Montpelier ci hanno voltato le spalle, anche se pensavamo di avere tutte le carte in regola.»
«Il CMV si aspettava che il programma di operazioni a cuore aperto fosse già avviato, a questo punto», gli fece notare Kelley. «Faceva parte del contratto.»
«Avrebbe fatto pane del contratto se avessimo ottenuto l’autorizzazione», precisò Traynor, «ma così non è stato. Guardiamo piuttosto a quello che è stato fatto. Abbiamo rinnovato il macchinario per la risonanza magnetica nucleare, costruito l’unità di terapia intensiva neonatale, sostituito la macchina al cobalto-60 con un acceleratore lineare super moderno. Mi pare che abbiamo dimostrato molta buona volontà, e siamo riusciti a fare tutte queste cose anche se l’ospedale sta perdendo denaro.»