«Avevo pensato a questa possibilità», replicò Kelley. «È per questo che volevo parlare direttamente con lei.»
Mitchell sfilò di tasca un portasigarette d’oro ed estrasse una sigaretta, che batté pensieroso sul coperchio. «C’è un sacco di profitto da spremere da questi ospedali rurali», affermò, «ma bisogna muoversi con prudenza.»
«Non potrei essere più d’accordo.»
«Di che cosa mi voleva parlare?»
«Di due cose. La prima riguarda un premio che vogliono istituire, simile all’incentivo che usiamo nei nostri ospedali, per diminuire la durata dei ricoveri.»
«E l’altra?»
«Uno dei nostri medici ha cominciato ad agire in maniera bizzarra, per reazione alle complicazioni postoperatorie di alcuni suoi pazienti. Dice che la colpa non è sua e che nell’ospedale c’è qualcosa che non va.»
«Ha precedenti psichiatrici?»
«Non ci risulta.»
«Per la prima questione, lasciate che attuino il loro programma di incentivi. A questo punto, non importa come va il loro bilancio.»
«E per il medico?» domandò Kelley.
«È evidente che si deve fare qualcosa, non possiamo lasciare che continui a comportarsi così.»
«Qualche suggerimento?»
«Faccia tutto quello che ritiene necessario», gli rispose Mitchell, «i dettagli li lascio a lei. Parte dell’abilità nel gestire un’organizzazione ampia come la nostra risiede nel capire quando è il momento di delegare le responsabilità. Questo è uno di quei momenti.»
«La ringrazio, signore.» Kelley era compiaciuto: era evidente che il suo capo aveva fiducia in lui. Elettrizzato, scese dalla limousine e salì sulla sua Ferrari. Mentre usciva dall’aeroporto, osservò Mitchell che stava per salire sul jet del CMV.
«Un giorno o l’altro», giurò a se stesso, «sarò io a usare quell’aereo.»
7
Mercoledì 30 giugno
Sia nel reparto di medicina sia in quello di patologia, le cerimonie per la fine dell’anno d’internato erano piuttosto informali. Dopo avere ritirato i loro attestati, David e Angela rinunciarono alle festicciole programmate per il pomeriggio e scapparono a casa. Quello era il giorno in cui avrebbero lasciato Boston per cominciare la loro nuova vita a Bartlet.
«Sei eccitata?» chiese David a Nikki.
«Non vedo l’ora di rivedere Rusty», rispose lei.
Per il trasloco avevano noleggiato un camioncino. Dopo qualche viaggio su e giù per le scale, tutti i loro averi vennero stipati nelle due vetture e Angela si mise al volante della famigliare, mentre David guidava il camioncino.
Per la prima metà del viaggio, Nikki preferì stare con il padre che ne approfittò per parlare con lei delle sue aspettative sulla sua nuova scuola e le chiese se avrebbe sentito la mancanza degli amici.
«Qualcuno mi mancherà, altri no», rispose lei, «ma credo che me la caverò.»
David sorrise sentendo quel saggio commento, ripromettendosi di riferirlo alla moglie.
Si fermarono a mangiare poco prima del confine del New Hampshire, ma fecero in fretta, desiderosi di arrivare al più presto nella loro nuova casa.
«Com’è bello abbandonare la città frenetica e ammalata di criminalità», sospirò Angela, mentre si riavvicinavano alle macchine. «A questo punto, non m’importa se non torneremo più indietro.»
«Io non lo so», replicò David scherzando. «Mi mancheranno le sirene, gli spari, i vetri che vanno in frantumi, le grida di aiuto. La vita di campagna dev’essere noiosa!»
Moglie e figlia lo tempestarono scherzosamente di pugni.
Per il resto del viaggio Nikki rimase con Angela.
Più risalivano verso nord, più il tempo migliorava. A Boston era caldissimo, umido e afoso, mentre nel Vermont il clima era più asciutto e l’aria era tersa.
Bartlet li accolse con l’aria serena di quel principio d’estate, i fiori su quasi tutti i davanzali, le strade quasi deserte, come se tutti stessero facendo la siesta.
«Possiamo fermarci a prendere Rusty?» domandò Nikki mentre si avvicinavano al negozio di ferramenta.
«Cerchiamo prima di sistemarci un pochino», rispose Angela. «Dovremo costruirgli un posto dove stare, finché non si abitua a vivere in casa.»
Percorso il vialetto d’ingresso, David e Angela parcheggiarono i loro veicoli fianco a fianco. Adesso che la casa era ufficialmente loro, se ne sentivano ancora più intimoriti che durante la prima visita.
«È bellissima, ma credo che ci vorranno più interventi del previsto», osservò David, indicando alla moglie qualche pezzo di decorazione che si era staccata dal cornicione.
«Oh, non mi preoccupo: ecco perché ho sposato uno che ci sa fare con le riparazioni», lo stuzzicò lei.
David rise. «Ti farò ricredere!»
«Cercherò di non avere pregiudizi», dichiarò Angela, divertita.
Aprirono con la chiave che avevano ricevuto per posta e la casa apparve loro molto diversa, adesso che i mobili degli Hodges erano stati completamente sgomberati, tranne un tavolo da cucina e uno sgabello.
«Fa pensare a un salone da ballo», disse David.
«C’è persino l’eco», notò Nikki, dopo avere gridato la parola «ciao» e averla sentita riecheggiare fra le pareti.
«È così che capisci di essere arrivato nel posto giusto nella tua vita», proferì David facendo sfoggio di un accento strettamente inglese. «Quando la tua casa nuova ha un’eco.»
Tutti e tre attraversarono lentamente l’ingresso e ora che non c’erano più i tappeti i loro passi risuonavano rumorosi sul pavimento di legno. La vastità della casa li impressionava, soprattutto in confronto all’esiguità dell’appartamento di Boston.
Davanti alla grande rampa di scale, pendeva un lampadario imponente. Sulla sinistra c’erano la biblioteca e la sala da pranzo e a destra un enorme soggiorno. Un corridoio centrale portava a una spaziosa cucina che occupava tutta la parte posteriore della casa. Da lì partiva la costruzione a due piani che si collegava con la rimessa, comprendente uno stanzino che fungeva da ingresso posteriore e numerosi altri vani da utilizzare come dispensa e depositi per gli attrezzi. Una scala a chiocciola portava al secondo piano.
Tornati davanti alla rampa di scale principale, i Wilson salirono al piano superiore. C’erano due camere da letto più piccole con i bagni contigui e poi quella principale, proprio sopra la cucina.
Nel corridoio centrale si apriva una porta che dava su una stretta scala; da lì salirono fino al terzo piano, dove trovarono quattro camere prive di riscaldamento.
«Un bel po’ di spazio», commentò David.
«Quale sarà la mia camera?» domandò Nikki.
«Quella che vuoi», le rispose la madre.
«Quella che dà sullo stagno!» esclamò la bambina.
Scesero di nuovo al secondo piano, entrando nella stanza indicata da Nikki, e si misero a discutere su come disporre i mobili, compresa la scrivania che ancora non possedevano.
«Ehi, ragazzi», s’impose Angela, «abbiamo già cincischiato fin troppo. È ora di scaricare.»
David le rispose con un saluto militare.
Finito di scaricare, non senza qualche difficoltà per i mobili più grossi e pesanti, David e Angela si misero a rimirare il soggiorno, osservando in particolare il tappeto che, nell’appartamento di Boston, andava da una parete all’altra e qui sembrava poco più di uno scendiletto.
«Sarebbe buffo, se non fosse pietoso», fu il commento di Angela a cui anche il divano, le poltrone consunte e lo striminzito tavolino da fumo, parevano indegni dell’eleganza della casa.
«Trasandato, molto chic», la rincuorò David. «Un arredamento minimalista. Se comparisse su una rivista di architettura, tutti cercherebbero di imitarlo.»
«E Rusty?» ricordò loro Nikki.
«Andiamo a recuperarlo. Te lo meriti, ci sei stata di grande aiuto. Tu vieni, Angela?»