Kelley lo accolse nel suo ufficio alzandosi e andandogli incontro, ma i suoi modi erano diversi da come David li conosceva: era serio, quasi arcigno. Gli presentò Neal Harper, un uomo magro dal colorito pallido, con un accenno di acne, il prototipo del burocrate che sta sempre rinchiuso nel suo ufficio a riempire moduli.
Si sedettero tutti e tre e Kelley cominciò a giocherellare con una matita, poi annunciò: «Ho visto le statistiche del suo primo quadrimestre. Non sono buone».
David spostò lo sguardo da uno all’altro dei due uomini, sentendosi sempre più ansioso.
«La sua produttività non è per nulla soddisfacente», continuò Kelley. «È fra i medici che visitano meno pazienti all’ora. Evidentemente, dedica troppo tempo a ogni paziente. Per renderete cose peggiori, le sue richieste di analisi ai laboratori del CMV superano di gran lunga la percentuale media. Quanto poi alle richieste a laboratori esterni, sono completamente al di fuori di ogni grafico.»
«Non sapevo faceste simili statìstiche», mormorò David.
«E non è tutto. Troppi suoi pazienti si sono presentati al pronto soccorso, anziché all’ambulatorio.»
«Questo è comprensibile, visto che ho appuntamenti in arretrato da più di due settimane. Se chiama qualcuno con problemi acuti che richiedono una visita immediata, li mando al pronto soccorso.»
«Male!» sbottò Kelley. «Non deve mandarli al pronto soccorso, deve visitarli nel suo studio, a meno che non stiano per tirare le cuoia.»
«Ma questo manderebbe all’aria la programmazione del mio lavoro», obiettò David. «Se mi dedico alle emergenze, non posso ricevere i pazienti che hanno preso appuntamento in anticipo.»
«Allora rimandi le loro visite, oppure faccia aspettare le cosiddette emergenze finché non avrà visitato i pazienti regolari. Come vuole, ma qualsiasi cosa decida, non usi il pronto soccorso.»
«Ma allora che cosa ci sta a fare, il pronto soccorso?»
«Non cerchi di fare lo spiritoso con me, dottor Wilson, lo sa benissimo a che cosa serve. Serve per i casi di vita o di morte e non consigli ai suoi pazienti di chiamare l’ambulanza, il CMV non la pagherà, a meno che l’intervento non sia stato approvata in precedenza, e questo succede solo nei casi in cui c’è un vero pericolo di vita.»
«Ma alcuni dei miei pazienti vivono soli», obiettò David. «Se si ammalano…»
«Non la faccia troppo lunga, dottor Wilson», lo interruppe Kelley. «Il CMV non è un servizio di autobus. Allora, riassumendo: deve aumentare considerevolmente la sua produttività, abbassare le richieste di analisi ai nostri laboratori e ridurre, o ancora meglio, far cessare le visite al di fuori del CMV e deve tener lontani i suoi pazienti dal pronto soccorso. Tutto qua. Capito?»
David uscì barcollando dall’ufficio, sbalordito. Non aveva mai pensato di esagerare nell’uso delle risorse mediche. Ciò che metteva al primo posto erano le esigenze dei pazienti e la ramanzina ricevuta lo aveva a dir poco irritato.
Rientrando in ambulatorio, intravide Kevin che spariva dietro una porta con un paziente e si ricordò della sua profezia sugli indici di valutazione. Aveva avuto ragione. Era stata una cosa devastante e lui era seccato ancora di più perché Kelley non aveva fatto il minimo riferimento alla qualità del servizio o al gradimento da parte dei pazienti.
«Farà meglio a mettersi sotto o rimarrà di nuovo indietro», gli consigliò Susan appena lo vide.
A metà mattinata, Angela passò da Nikki e fu contenta di vedere che stava decisamente meglio: la febbre era sparita e la congestione polmonare si era notevolmente ridotta.
«Quando posso tornare a casa?» chiese la bimba.
«Per ora devi restare qui, ma, se continui a migliorare così, sono sicura che il dottor Pilsner non ti terrà qui a lungo», le rispose Angela, giocherellando con i suoi capelli, poi la lasciò per tornare al lavoro.
Stava per sedersi alla scrivania, quando notò che la porta di comunicazione con la stanza del dottor Wadley era socchiusa. Si avvicinò e sbirciò dentro: il suo capo era chinato su un microscopio didattico con due oculari. Scorgendola, le fece cenno di entrare.
«Voglio farle vedere qualcosa», le disse.
Lei si sedette di fronte al suo maestro e le loro ginocchia quasi si toccarono. Appoggiò gli occhi al microscopio e riconobbe immediatamente un campione del tessuto di un seno.
«È un caso delicato», le spiegò Wadley. «La paziente ha solo ventidue anni. Dobbiamo fare la diagnosi e dobbiamo farla esatta. Prenda tutto il tempo che occorre.» Nel dire così, allungò una mano sotto il tavolo e le strinse la gamba, appena sopra il ginocchio. «Non sia impulsiva, non si lasci guidare dalle prime impressioni, osservi attentamente tutti i canali.»
Angela cercò di concentrarsi sul vetrino, ma faceva fatica. Wadley non aveva spostato la mano e intanto continuava a parlare, spiegandole quali erano i punti chiave per fare la diagnosi. Lei quasi non riusciva a seguire le sue spiegazioni, sentendosi a disagio per quella mano sulla sua coscia.
In precedenza era capitito diverse volte che Wadley l’avesse toccata, ma si era trattato di una stretta a un braccio, di una pacca sulla schiena, magari di un abbraccio un po’ esuberante; durante la partita di softball, al picnic, avevano più volte espresso la soddisfazione per un punto messo a segno con il tipico saluto palmo contro palmo, ma fino a quel momento non c’erano mai stati gesti così intimi.
Angela avrebbe voluto spostarsi o fargli togliere la mano, ma non si decideva. Sperava che Wadley si rendesse conto di quanto lei fosse a disagio e la togliesse di sua spontanea volontà, invece lui la tenne lì ferma per tutto il tempo della loro conversazione sulla paziente.
Alla fine Angela si alzò. Si rese conto di tremare e, mordendosi la lingua, rientrò nel suo ufficio.
«Quando sarà pronta con quei vetrini per l’esame ematologico, li esamineremo insieme», le disse Wadley.
Angela chiuse la porta del suo ufficio e si lasciò cadere sulla sedia. Prossima alle lacrime, affondò la testa fra le mani e si lasciò sommergere da un’ondata di pensieri. Alla luce di ciò che era appena accaduto, alcuni episodi dei mesi precedenti assunsero ai suoi occhi un nuovo significato: Wadley si era offerto spesso di rimanere oltre l’orario di lavoro per esaminare i vetrini insieme a lei; tutte le volte che lei andava al bar, se lo ritrovava seduto al suo stesso tavolo; per quanto riguardava il contatto fisico, poi, adesso che ci pensava, non si era mai lasciato scappare un’occasione. A questo punto, la proposta di recarsi insieme a lui a un convegno di patologia a Miami assumeva un significato imbarazzante.
Provò a ricomporsi e a chiedersi se non stesse reagendo in modo sproporzionato, come David l’accusava spesso di fare. Forse stava gonfiando troppo quello che era accaduto, forse Wadley non si era reso conto di ciò che faceva, impegnato com’era nel suo ruolo di maestro.
Eppure, dentro di sé, Angela era sicura di non avere frainteso. Pur essendo grata a Wadley per i suoi insegnamenti, sapeva che il suo gesto era stato fatto deliberatamente. Che cosa poteva fare lei per mettere fine a quella familiarità indesiderata? Dopotutto, lui era il suo capo.
Alla fine del suo orario di lavoro, David passò a trovare Marjorie Kleber e qualche altro paziente che aveva fatto ricoverare, poi si fermò da Nikki, sedendosi sul suo letto.
«Vedo che ti stai dando alla pazza gioia», scherzò, alludendo al televisore acceso.
«Su, papà, non ne ho guardata tanta. Prima è venuta a trovanni la signora Kleber e mi ha persino fatto fare un po’ di compiti.»
«Terribile! E come va la respirazione?»
Ormai Nikki era un’esperta nel valutare le proprie condizioni fisiche. «Bene», rispose. «Ancora un po’ chiusa, ma va molto meglio.»
Arrivò anche Angela, che si sedette dall’altra parte del letto e Nikki chiacchierò con loro per una mezz’oretta.