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Riprese a camminare, stringendo le fotocopie nella tasca del cappotto. Le dita erano quasi insensibili. Si fermò ancora e questa volta guardò le vetrate dell’Iron Horse Inn, dalle quali si espandeva sulla neve una luminescenza che pareva un invito.

Gli bastò un attimo per decidere che poteva anche farsi un altro goccetto. Dopotutto, adesso che sua moglie Clara passava più tempo a Boston con la sua famiglia piuttosto che a Bartlet insieme a lui, non c’era nessuno ad aspettarlo. Una bevutina lo avrebbe aiutato ad affrontare i venti minuti di camminata che ancora gli occorrevano per arrivare a casa.

Dopo avere appeso cappotto e berretto a un attaccapanni nell’ingresso, Hodges scese una breve rampa di scale, fino a una stanza rivestita di legno scurito dagli anni e riscaldata da un camino. Con uno sguardo abbracciò tutto il locale e le persone che vi erano riunite.

Vide Barton Sherwood, presidente della Green Mountain National Bank e adesso, grazie a Traynor, vicepresidente del consiglio d’amministrazione dell’ospedale. Sherwood sedeva dietro a un séparé insieme a Ned Banks, l’odioso proprietario della New England Coat Hanger Company, la fabbrica di stampelle.

A un altro tavolo erano seduti il dottor Delbert Cantor e il dottor Paul Darnell. Il loro tavolo era ingombro di bottiglie di birra, cestini di patatine fritte e vassoi di formaggio. A Hodges parvero un paio di maiali al trogolo.

Per una frazione di secondo, Hodges pensò di tirar fuori di tasca le sue carte e di parlare con Sherwood e Cantor, ma abbandonò subito l’idea. Non ne aveva l’energia, e poi quei due lo odiavano a morte. Cantor, radiologo, e Darnell, patologo, avevano entrambi subito un danno quando lui aveva fatto in modo che l’ospedale offrisse anche quei servizi, cinque anni prima. Non erano certo il pubblico più ricettivo per le sue lamentele.

Al banco era appoggiato John MacKenzie, un altro che Hodges avrebbe volentieri evitato, avendo avuto una lunga disputa con lui. John era il proprietario della stazione della Mobil vicino all’interstatale e per parecchi anni gli aveva aggiustato l’auto, ma l’ultima volta il problema non era stato risolto e Hodges aveva dovuto farsi parecchi chilometri per portarla dal concessionario, e di conseguenza non aveva pagato John.

Un paio di sgabelli più in là, Hodges vide Pete Bergan. A diciotto anni aveva abbandonato la scuola, mettendosi a fare i lavori più strani. Hodges era riuscito a farlo entrare nella squadra di giardinieri dell’ospedale, ma aveva dovuto acconsentire al suo licenziamento quando si era dimostrato inaffidabile. Da allora Pete gli serbava rancore.

Dal juke-box in pieno stile anni Cinquanta si diffondeva una musica martellante e intorno ai due tavoli da biliardo si accalcava un gruppetto di studenti del Bartlet College.

Hodges esitò un momento sulla soglia, pensando se per un bicchierino valeva la pena di mescolarsi a quella gente, ma poi attraversò la stanza ignorando tutti i presenti e andò ad appollaiarsi su uno sgabello libero, all’estremità del bancone. Il calore proveniente dal camino gli scaldava la schiena e davanti a lui comparve subito un bicchierino che Carleton Harris, il pingue barista, si affrettò a riempire. I due si conoscevano da lungo tempo.

«Non vuole cercarsi un posto migliore?» chiese Carleton.

«No, perché?» Hodges era contento che nessuno avesse notato il suo arrivo.

Carleton fece cenno a un bicchiere mezzo vuoto appoggiato sul banco, due sgabelli più in là. «Il nostro intrepido capo della polizia, il signor Wayne Robertson, è passato a farsi un bicchierino. Adesso è al gabinetto.»

«Oh, accidenti!» esclamò Hodges.

«Non dica poi che non l’ho avvisata», aggiunse Carleton.

«Dalla padella nella brace», borbottò Hodges. All’altra estremità del bancone si sarebbe trovato a faccia a faccia con John MacKenzie e, quindi, decise di rimanere dov’era e portò il bicchiere alle labbra.

Prima di poter bere un sorso, però, si sentì dare una pacca sulla schiena.

«Ma guarda un po’ se non è il ciarlatano!»

Hodges si voltò e si ritrovò davanti Wayne Robertson, più ubriaco che mai. Robertson aveva quarantadue anni ed era un tipo ben piazzato. Un tempo era stato tutto muscoli, adesso era metà muscoli e metà grasso e la pancia era talmente prominente che gli scendeva a coprire la cintura. Indossava ancora l’uniforme, con la pistola e tutto il resto.

«Wayne, sei ubriaco», gli disse Hodges. «Perché non te ne vai a casa e ci dormi sopra?» Poi si voltò.

«Non c’è nessuno da cui tornare, grazie a te.»

Hodges si voltò di nuovo e guardò i suoi occhi iniettati di sangue, rossi quasi quanto le guance paffute.

«Wayne, non ritorniamoci sopra. Tua moglie, che riposi in pace, non era una mia paziente. Sei ubriaco. Vai a casa.»

«Eri tu che gestivi quel cavolo di ospedale.»

«Questo non significa che ero responsabile di ogni singolo caso, zuccone. E poi è stato dieci anni fa.» Hodges cercò di nuovo di rigirarsi verso il suo bicchierino.

«Bastardo!» ringhiò Robertson e afferrò Hodges per il collo della camicia cercando di sollevarlo dallo sgabello.

Carleton Harris arrivò con una rapidità incredibile, considerando la sua mole, e si mise fra i due, riuscendo poi a far allentare la presa a Robertson, un dito dopo l’altro. «Buoni!» esclamò. «Qui all’Iron Horse non permettiamo risse.»

Hodges si sistemò la camicia con aria indignata, afferrò il suo bicchierino e si diresse all’altra estremità del bancone. Nel passare accanto a John MacKenzie, lo sentì borbottare: «Scroccone», ma non raccolse la provocazione.

«Carleton, non avresti dovuto impicciarti», fu il parere del dottor Cantor. «Se Robertson le avesse suonate al vecchio Hodges, mezza città avrebbe applaudito.»

Cantor e Darnell scoppiarono in una fragorosa risata, dandosi pacche sulle ginocchia e soffocandosi quasi con la birra. Carleton li ignorò e servì Barton Sherwood, che si era avvicinato al banco per farsi riempire il bicchiere.

«Il dottor Cantor ha ragione», disse Sherwood a voce abbastanza alta perché tutti potessero udire. «La prossima volta che Hodges e Robertson si affrontano, lasciali fare. Non è certo un buon vicino, quello là. Ha una strisciolina di terra che separa i miei due appezzamenti e sai che cosa ci fa? Ci costruisce una staccionata gigantesca!»

«Certo», reagì Hodges, incapace di tenere a freno la lingua. «Era l’unico modo per impedire ai suoi maledetti cavalli di spargere la loro merda sulla mia proprietà.»

«Allora perché non me l’ha venduta? A lei non serve.»

«Non posso venderla perché è intestata a mia moglie.»

«Sciocchezze. Ha intestato la casa e la terra a sua moglie solo per proteggere le sue proprietà da eventuali condanne per negligenza. Me lo ha detto lei stesso.»

«Allora è meglio che lei sappia la verità», ribatté Hodges. «Io cercavo di essere diplomatico. Non le venderò la terra perché la disprezzo. È abbastanza facile da capire per quel suo cervellino grande come un pisello?»

Sherwood si rivolse ai presenti. «Siete rutti testimoni. Il dottor Hodges ammette di agire per ripicca. Non c’è da sorprendersi, naturalmente, non è certo un comportamento cristiano.»

«Oh, stia zitto», replicò Hodges. «È un po’ ipocrita per un presidente di banca fare questioni sull’etica cristiana degli altri, con tutte le ipoteche che ha sulla coscienza. Ha buttato fuori di casa un sacco di famiglie.»

«Questo è diverso», rispose Sherwood. «Si tratta di affari. Devo tenere conto dei miei azionisti.»