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«Un attacco epilettico alla 216!» gridò una delle infermiere. La 216 era la stanza di Sandra.

David corse dalla sua paziente e la trovò in preda a un attacco fortissimo. Il corpo era arcuato all’indietro e le membra si contraevano ritmicamente con una tale forza che tutto il letto sobbalzava sul pavimento. David si fece portare un tranquillante e lo somministrò immediatamente per via endovenosa. Dopo pochi minuti, la convulsione cessò, lasciando Sandra immobile e comatosa; allora lui sentì che la disperazione cedeva il posto alla rabbia.

Ordinò tutto: consulti, analisi di laboratorio, raggi X, persino una risonanza magnetica nucleare del cranio. Era deciso a scoprire che cosa stava accadendo a Sandra Hascher. La fece anche trasportare all’unità di terapia intensiva perché desiderava tenerla costantemente sotto controllo. Non voleva altre sorprese.

Quando avvenne il trasferimento, aiutò a spingere il lettino lungo il corridoio, poi si diresse alla scrivania per riempire le pratiche, ma si fermò, impietrito. In un letto proprio di fronte c’era Nikki.

Rimase terrorizzato: che cosa significava la sua presenza all’unità di terapia intensiva?

Sentì una mano sulla spalla. Era il dottor Pilsner. «Vedo che è sconvolto nel vedere sua figlia qui», gli disse. «Si calmi. L’ho fatto perché non voglio correre rischi. Qui ci sono delle infermiere molto preparate, abituate a prendersi cura di pazienti con problemi respiratori.»

«È sicuro che sia proprio necessario?» David conosceva gli effetti negativi che poteva avere quel reparto sulla psiche dei pazienti.

«È per il suo bene, soltanto una precauzione. La sposterò di qua appena possibile.»

Prima di scrivere le prescrizioni per Sandra, David passò da Nikki e scoprì che era molto meno preoccupata di lui all’idea di restare in quel reparto. Sollevato nel vedere che sua figlia la stava prendendo bene, si sedette alla scrivania e cominciò a scrivere le prescrizioni per Sandra. Aveva quasi finito, quando un impiegato lo toccò al braccio, comunicandogli: «C’è un certo signor Kelley che la vuole vedere; è nella sala di ritrovo dei pazienti».

David sentì una morsa allo stomaco. Sapeva benissimo perché il responsabile regionale del CMV lo voleva vedere e non ci volle andare subito. Finì di scrivere gli ordini e li diede alla caposala. Soltanto allora andò da Kelley.

«Sono deluso», lo accolse lui. «La coordinatrice della sezione ottimizzazione risorse mi ha chiamato solo pochi minuti fa…»

«Aspetti un momento!» lo interruppe David. «Ho una paziente all’unità di terapia intensiva e non ho tempo da perdere con lei. Quindi si tolga dai piedi, le parlerò più tardi. Capito?»

Per un secondo lo fissò in viso, poi girò sui tacchi e uscì.

«Un minuto solo, dottor Wilson», si sentì chiamare. Allora si girò e tornò indietro come una furia. Senza preavviso afferrò Kelley per la cravatta e lo spinse indietro, facendolo finire su una poltroncina, poi gli agitò un pugno davanti al viso.

«Stia lontano da me! Se non lo fa, non mi assumo responsabilità sulle conseguenze.»

Kelley deglutì, ma non si mosse.

David girò su se stesso e marciò fuori dalla stanza. Quando fu sulla porta, sentì Kelley che gli gridava dietro: «Ne parlerò ai miei superiori!»

Lui si voltò appena il tempo per rispondergli: «Lo faccia!» e proseguì deciso.

Tornò alla scrivania e si fermò, con il cuore che gli martellava in petto. Si chiese che cosa avrebbe fatto, se Kelley gli avesse opposto resistenza.

«Dottor Wilson», lo chiamò l’impiegato. «C’è in linea il dottor Mieslich.»

«Mio marito insegna teatro e letteratura al college», spiegò Madeline Gannon, vedendo che Calhoun guardava con interesse i numerosi scaffali di libri che rivestivano le pareti della biblioteca.

«Mi piacerebbe incontrarlo», disse lui. «Da quando sono in pensione leggo tantissimo, soprattutto Shakespeare.»

«Di che cosa mi voleva parlare?» cambiò discorso la donna; a giudicare dall’aspetto di Calhoun, suo marito Bernard non si sarebbe interessato molto a lui.

«Sto indagando sull’omicidio del dottor Dennis Hodges. Come sa, di recente è stato ritrovato il suo cadavere.»

«È stata una cosa dolorosa.»

«So che ha lavorato a lungo per lui.»

«Più di trent’anni.»

«Un lavoro piacevole?»

«Aveva i suoi alti e bassi», ammise Madeline. «Il dottor Hodges era un uomo dalla forte personalità. Poteva essere testardo e irascibile e un minuto dopo comprensivo e generoso. Io lo ammiravo e lo detestavo allo stesso tempo, ma sono rimasta sconvolta quando ho saputo che hanno ritrovato il cadavere. Speravo che si fosse stufato di tutto e di tutti e se ne fosse andato in Florida. Parlava spesso di andarci, soprattutto negli ultimi tempi.»

«Sa chi lo ha ucciso?» domandò Calhoun, mentre intanto si guardava intorno alla ricerca di un portacenere.

«Non ne ho la minima idea, ma c’erano di sicuro un sacco di candidati.»

«Chi, per esempio?»

«Be’, non è esattamente così. A voler essere davvero onesta, non credo che una sola delle persone che davano regolarmente in escandescenze con lui gli avrebbe fatto davvero del male. Così come il dottor Hodges non avrebbe mai messo in pratica le minacce che proferiva così di frequente.»

«Chi minacciava?»

Madeline rise. «Tutti coloro che avevano qualcosa a che fare con la nuova amministrazione dell’ospedale. Anche il capo della polizia, il capo della banca cittadina, il proprietario della stazione Mobil. L’elenco potrebbe continuare a lungo.»

«Come mai Hodges era così in collera con la nuova amministrazione dell’ospedale?» volle sapere Calhoun.

«Soprattutto a causa dei suoi pazienti, o meglio, dei suoi ex pazienti. Il dottor Hodges aveva diminuito la sua attività di medico, quando aveva assunto la direzione dell’ospedale, e ancora di più quando era apparso sulla scena il CMV. Lui non ne aveva fatto una questione, perché si rendeva conto che l’ospedale aveva bisogno di un grosso ente mutualistico come cliente, ma poi i suoi ex pazienti cominciarono a tornare da lui, lamentandosi dell’assistenza fornita loro dal CMV. Volevano riaverlo come medico curante, ma non era più possibile perché l’assistenza sanitaria ormai era fornita loro dal CMV.»

«Ma allora avrebbe dovuto prendersela con il CMV, piuttosto che con l’ospedale», osservò Calhoun, che poi chiese se poteva fumare.

Madeline non gli permise di fumare, ma in compenso si offrì di fargli il caffè.

«Che cosa dicevamo?» continuò poi, dopo che si furono spostati in cucina. «Ah, sì. Ce l’aveva con il CMV, ma anche con l’ospedale che acconsentiva a tutte le richieste del CMV. E il dottor Hodges sentiva di contare ancora nell’ospedale.»

«C’era qualcosa di specifico per cui era in collera?»

«Un insieme di cose. Non gli andava la gestione del pronto soccorso, per esempio. La gente non può più andare al pronto soccorso, a meno che non paghi di tasca propria. Anche il ricovero in ospedale non è sempre prescritto a chi invece pensa di averne bisogno. Il giorno in cui scomparve, il dottor Hodges era veramente sconvolto per la morte di uno dei suoi ex pazienti. Ne erano morti un certo numero, ultimamente. Me lo ricordo perché l’ho sentito sbraitare che i medici del CMV non erano capaci di tenere in vita i suoi pazienti. Secondo lui erano incompetenti e l’ospedale era complice della loro incompetenza.»

«Si ricorda il nome del paziente per il quale Hodges era sconvolto quel giorno particolare?» domandò Calhoun.

«Eh, adesso lei si aspetta un miracolo da me!» esclamò Madeline, mentre intanto serviva il caffè. «Ma, aspetti… Sì, era Clark Davenport, non ho dubbi.»

Calhoun trasse di tasca le copie dei fogli di accettazione che lui e Angela si erano procurati a Burlington e le scorse. «Eccolo: Clark Davenport, anca fratturata.»