Выбрать главу

«Capita a proposito!» la accolse con un sorriso. «Ho alcune novità.»

«Anch’io, purtroppo. Che cosa ne dice se andiamo a casa mia?»

Giunta a casa, Angela mise subito l’acqua a bollire e, quando Calhoun bussò alla porta, aveva già messo sul tavolo tazze e piattini.

«Tè o caffè?» gli chiese.

«Quello che prende lei», rispose Calhoun, poi aggiunse: «Ha staccato presto, oggi!»

Dopo avere tenuto a freno le sue emozioni dal momento in cui era uscita di corsa dallo studio di Wadley, Angela reagì a quell’innocente commento con un fiume di lacrime.

Il detective rimase a guardarla, perplesso, senza capire che cosa le avesse detto o fatto di male. Aspettò che il pianto dirotto si trasformasse in singhiozzi intermittenti per scusarsi: «Mi spiace, non so che cosa ho fatto, ma mi spiace».

Angela gli si avvicinò, mise le braccia intorno alla sua notevole mole e gli appoggiò la testa sulla spalla. Lui l’abbracciò paternamente e, quando vide che aveva smesso di piangere, le consigliò di raccontargli che cosa le era accaduto.

«Credo che berrò del vino, invece del tè», decise lei.

«E io prenderò una birra.»

Si sedettero in cucina e Angela disse a Calhoun di essere stata licenziata, spiegandogli quali conseguenze catastrofiche ciò avrebbe avuto sulla sua famiglia.

Lui si rivelò un ottimo ascoltatore e seppe parlarle con pacatezza, facendola sentire meglio. Parlarono persino delle preoccupazioni che destava la salute di Nikki.

Poi Calhoun rivelò ad Angela di avere fatto qualche progresso nelle indagini. «Ma forse ora non le interessa più», osservò.

«No, no, m’interessa. Mi dica.»

«Intanto, ho scoperto che gli otto pazienti di cui Hodges portava in giro i fogli di accettazione avevano qualcosa in comune. Erano tutti suoi pazienti, passati in seguito al CMV e morti nei mesi precedenti la sua scomparsa. A quanto pare, Hodges era rimasto stupito della morte di ognuno di loro. Per questo era così furibondo.»

«Dava la colpa all’ospedale o al CMV?»

«Buona domanda. Da quanto ho saputo dalla sua segretaria, a tutti e due, ma ce l’aveva soprattutto con l’ospedale. Questo ha una sua logica, perché continuava a considerarlo come una sua creatura. Quindi rimaneva deluso quando ne scorgeva i difetti.»

«Questo ci aiuta a scoprire chi l’ha ucciso?»

«Probabilmente no, ma è un altro pezzo del mosaico. E ce n’è ancora un altro: Hodges pensava di conoscere l’identità dello stupratore del parcheggio, anzi, lo riteneva collegato all’ospedale.»

«Se lo stupratore sapeva che Hodges lo sospettava, allora potrebbe essere stato lui ad averlo ucciso», concluse Angela. «In altre parole: lo stupratore e l’assassino di Hodges potrebbero essere la stessa persona.»

«Esatto, la stessa persona che ha cercato di uccidere lei l’altra notte.»

Angela rabbrividì. «Non me lo faccia ricordare!» Poi aggiunse: «Ma adesso tocca a me rivelarle una novità: l’assassino ha un tatuaggio»

«Come fa a saperlo?».

Angela spiegò ciò che aveva appreso da Walt Dunsmore e Calhoun commentò: «Perdinci, questo sì che mi piace!»

Quando un’altra infermiera del secondo piano telefonò in ambulatorio da David chiedendo di essere visitata, lui la fece scendere subito, curioso di verificarne i sintomi. Erano gli stessi che aveva avuto lui, un po’ più pronunciati per quanto riguardava i disturbi gastrointestinali. La temperatura era a trentotto gradi e mezzo ed era presente la salivazione eccessiva. David consigliò il riposo a letto, l’assunzione di liquidi in abbondanza e di antipiretici.

Quando ebbe terminato le sue visite in ambulatorio, passò da Nikki, che stava molto meglio e non era per nulla infastidita di tutto il via vai che c’era all’unità di terapia intensiva. David, comunque, fu contento di sapere che la mattina dopo l’avrebbero trasferita in una stanza normale.

Poi si recò da Sandra, che purtroppo non era uscita dal coma. Gli specialisti che l’avevano visitata non erano stati di grande aiuto. Hasselbaum aveva assicurato che non erano in corso malattie infettive e l’oncologo aveva insistito che il risultato del trattamento per il melanoma era stato buono. La lesione primaria era stata scoperta sei anni prima alla coscia e asportata insieme a qualche linfonodo interessato.

David si sedette alla scrivania, davanti alla cartella clinica di Sandra. La risonanza magnetica nucleare della testa era normale: nessun tumore e di certo nessuna infezione cerebrale. Alcune delle analisi di laboratorio non erano ancora pronte e sarebbero passati altri giorni prima di averle: si trattava di colture dei fluidi, utili per cercare eventuali agenti che potessero causare infezioni, e di alcune ricerche biotecnologiche sofisticatissime sugli stessi fluidi, per scoprire tracce di virus.

David non sapeva che cosa fare. L’unica idea che gli venne in mente fu di far trasferire Sandra in uno dei grandi ospedali universitari di Boston, ma sapeva che il CMV sarebbe stato contrario, a causa della spesa.

Stava ancora impazzendo sulla cartella clinica di Sandra, quando vide arrivare Kelley.

«Spero di non disturbarla», gli si rivolse il funzionario, sulle cui labbra era ritornato il solito sorrisetto.

«Ultimamente, mi ha disturbato tutte le volte che l’ho vista», rispose David.

«Mi dispiace», disse Kelley con tono condiscendente. «Ma ho da darle una notizia: da questo momento i suoi servigi non sono più richiesti.»

«Così, pensa di togliermi Sandra Hascher?»

«Sì.» Il sorriso di Kelley si allargò. «E tutti gli altri pazienti. È licenziato. Non è più un dipendente del CMV.»

David rimase a bocca aperta. Guardò Kelley rivolgergli un gesto di saluto con la mano, come si farebbe con un bambino, e dirigersi verso l’uscita dell’unità di terapia intensiva. Si alzò di scatto e gli corse dietro.

«E tutti i pazienti con cui ho appuntamento?» gli chiese.

«È una preoccupazione del CMV, non sua», gli rispose Kelley senza nemmeno voltarsi.

«La decisione è definitiva?» chiese ancora David. «Oppure è temporanea, in attesa di un colloquio?»

«È definitiva, amico mio.» E Kelley scomparve in fondo al corridoio.

David si sentiva stordito. Non riusciva a credere di essere stato licenziato. Arrivò quasi barcollando fino alla sala di ritrovo dei pazienti e si lasciò cadere nella stessa poltroncina sulla quale aveva spinto Kelley quella stessa mattina.

Scosse la testa, incredulo: il suo primo vero lavoro era durato soltanto quattro mesi. Al pensiero di che cosa ciò avrebbe significato per la sua famiglia, cominciò a tremare. Si domandò come lo avrebbe detto ad Angela. E pensare che soltanto la sera prima l’aveva accusata di mettere a repentaglio il proprio lavoro.

Proprio in quel momento, la vide entrare nell’unità di terapia intensiva. Per un attimo rimase immobile, come per non farsi scoprire, ma poi si alzò e la seguì fino da Nikki. Si ritrovarono così uno di fronte all’altra, ai due lati del letto, ma ognuno dei due evitava di guardare l’altro negli occhi.

«Potrò vedere Caroline, quando uscirò dall’unità di terapia intensiva?» chiese Nikki.

I suoi genitori incrociarono rapidamente lo sguardo. Nessuno dei due sapeva che cosa dire.

«È andata via?» insistette la bimba.

«Sì, è andata via», rispose Angela.

«L’hanno dimessa!» gridò Nikki e gli occhi le si riempirono di lacrime. Ci teneva troppo a rivedere la sua amica.

«Forse ti verrà a trovare Arni», provò a consolarla David.

La delusione rese la bambina sgarbata e di malumore e ci volle un po’ di tempo prima di riuscire a rasserenarla un po’. Quando uscirono dall’ospedale, Angela e David continuarono a parlare di lei, augurandosi che il trasferimento a un reparto normale avrebbe migliorato il suo umore.