«Posso capire che sia preoccupato per sua figlia, ma non pensa che la sua teoria possa essere un po’ affrettata?»
«Risponde a un sacco di interrogativi. Mi fa persino pensare al dottor Portland.»
«Perché?» domandò Angela.
«Kevin ci aveva raccontato che il dottor Portland non aveva intenzione di assumersi tutta la colpa per le morti dei suoi pazienti e che nell’ospedale stava accadendo qualcosa di strano.»
Lei annuì.
«Deve avere sospettato qualcosa. Purtroppo ha ceduto alla depressione.»
«Si è suicidato», spiegò Angela a Calhoun.
«Che spreco», commentò lui. «Tutti quegli anni di studi!»
«La questione ora è», continuò David, «se qualcuno pratica l’eutanasia nell’ospedale, chi potrebbe essere? Dovrebbe essere qualcuno con la possibilità di avvicinarsi ai pazienti e che abbia una conoscenza approfondita della medicina.»
«Questo limiterebbe la cosa a un medico o a un’infermiera», suggerì Angela.
«O a un tecnico di laboratorio», aggiunse David.
«Secondo me state saltando a conclusioni troppo affrettate», obiettò Calhoun. «Non è così che vanno svolte le indagini. Non ci si inventa una teoria, per poi correre a centocinquanta all’ora come stiamo facendo. Quasi tutte le teorie cadono a pezzi, quando si confrontano con i fatti. Credo proprio che dovremmo rallentare.»
«Non mentre mia figlia è in pericolo», ribatté David, premendo ancora di più sull’acceleratore.
«Pensi che Hodges sia arrivato alle stesse conclusioni?» gli domandò Angela.
«Credo di sì e, se è così, è per questo che è stato ucciso.»
«Io continuo a pensare che sia stato lo stupratore», disse Calhoun. «Comunque, chiunque sia stato, questa indagine è avvincente. Sono anni che non mi divertivo così… purché vostra figlia stia bene, naturalmente.»
Quando finalmente arrivarono all’ospedale, David si fermò proprio davanti all’entrata principale e balzò giù dal furgoncino, con Angela alle calcagna. Entrambi salirono di corsa le scale e imboccarono il corridoio del secondo piano.
Con grande sollievo, videro che Nikki stava benone ed era intenta a guardare la televisione. David la sollevò fra le proprie braccia e la strinse così forte che lei si lamentò.
«Vieni a casa», le annunciò e l’allontanò da sé quel tanto che gli occorreva per osservarla bene, soprattutto gli occhi.
«Quando?» chiese lei.
«Subito», le rispose Angela, staccandole la flebo.
In quel momento, nel corridoio stava passando un’infermiera e se ne accorse.
«Che cosa succede qui?» domandò, entrando di corsa nella stanza.
«Mia figlia viene a casa con noi», rispose David.
«Gli ordini non sono questi», obiettò lei.
«Lo do io l’ordine, in questo preciso istante.»
L’infermiera corse fuori e, dopo pochi istanti, arrivò Janet Colburn con diverse infermiere al seguito.
«Dottor Wilson, che cosa sta facendo?» chiese stupita.
«Mi pare che sia evidente», rispose lui, mentre intanto raccoglieva i libri e i giocattoli di Nikki infilandoli in una borsa.
Angela aveva quasi finito di vestire la figlia, quando arrivò il dottor Pilsner, che era stato avvisato da Janet e insistette affinché non venisse interrotta la somministrazione di antibiotici per via endovenosa e la terapia respiratoria.
«Mi spiace, dottor Pilsner», gli disse David. «Poi le spiegherò. Adesso ci vorrebbe troppo tempo.»
In quel momento, arrivò Helen Beaton, chiamata anche lei dalle infermiere. Era furibonda. «Se portate via quella bambina contro il parere medico, richiederò un ordine del tribunale», tuonò.
«Ci provi!» sbottò Angela.
Ormai Nikki era vestita e s’incamminò con i genitori lungo il corridoio, mentre parecchi pazienti, attirati dalla confusione, erano usciti dalle loro camere e assistevano alla scena a bocca aperta.
Angela e Nikki si sistemarono nella cabina del furgoncino, mentre David salì dietro.
Per tutto il viaggio fino a casa, Nikki non la finì di fare domande sulla sua improvvisa dimissione dall’ospedale. Era contenta, naturalmente, ma il comportamento dei genitori le sembrava strano. Quando arrivò a casa, comunque, fu troppo eccitata nel rivedere Rusty e si dimenticò di tutto il resto. David e Angela la lasciarono giocare un po’ con il cane, ma poi la sistemarono nel salottino e le rimisero la flebo.
Calhoun rimase con loro e si diede da fare come meglio poté. Accontentò Nikki scendendo in cantina a prendere una bracciata di legna e accese il camino, ma non era nella sua natura restarsene zitto e ben presto si mise a discutere con David sul movente dell’assassinio di Hodges. Calhoun propendeva per lo stupratore, mentre David per l’’angelo della misericordia’ che era stato disturbato.
«La sua teoria è basata tutta su una supposizione», obiettò Calhoun. «Sua figlia sta bene, grazie a Dio, così non ci sono prove. Almeno con la mia teoria abbiamo Hodges che grida ai quattro venti, in una stanza piena di persone, che sa chi è lo stupratore e questo accade proprio il giorno in cui viene fatto fuori. Più causa ed effetto di così! E Clara pensa che Hodges abbia avuto il fegato di parlare direttamente a quell’uomo. Sono sicuro che lo stupratore e l’assassino sono la stessa persona, ci scommetterei. A quanto me lo date?»
«Non sono uno scommettitore», replicò David, «ma penso di avere ragione. Hodges è stato picchiato a morte con in mano i nomi dei suoi pazienti. Non può essere stata una coincidenza.»
«E se fosse la stessa persona?» intervenne Angela. «Giustiziere dei pazienti e stupratore.»
L’idea scioccò i due uomini, che rimasero per un po’ in silenzio.
«È possibile», ammise David alla fine. «Sembra un’idea pazza, ma a questo punto sono disposto a credere a tutto.»
«Comunque, io seguo la pista del tatuaggio», affermò Calhoun.
«Io mi dedico ai referti medici», annunciò David. «E potrei anche andare a fare visita al dottor Holster. Hodges può avergli detto qualcosa dei propri sospetti riguardo a quei pazienti.»
«Bene. Io seguo la mia pista, lei la sua. Che cosa ne dice se stasera torno qui, così mettiamo a confronto ciò che abbiamo scoperto?»
«Mi sembra una buona idea», disse David, voltandosi a guardare Angela.
«Sì, per me va bene», approvò lei. «E se restasse a cena da noi?»
«Non rinuncio mai a un invito a cena», rispose Calhoun.
«Allora torni qui alle sette.»
Quando Calhoun se ne fu andato, David andò a prendere il fucile e lo caricò con quanti più proiettili gli riusciva di ficcarci dentro, poi lo appoggiò alla ringhiera della scala, nell’ingresso.
«Hai cambiato idea sul fucile?» gli domandò Angela.
«Diciamo che sono contento che sia qui. Ne hai parlato a Nikki?»
«Sì. Le ho persino fatto tirare un colpo, ma mi ha detto che le ha fatto male alla spalla.»
«Non fare entrare nessuno, mentre sono via, e chiudi tutte le porte a chiave.»
«Ehi, ero io quella che voleva chiudere a chiave, ri ricordi?» disse Angela.
David prese la bici, non volendo lasciare Angela senza la macchina. Pedalò in fretta, dimentico di ciò che gli stava intorno. Continuava a pensare a un assassino che aveva ucciso i suoi pazienti e ciò lo inorridiva e lo rendeva furioso. Però, come diceva Calhoun, non aveva prove.
Quando arrivò all’ospedale, era il momento in cui finiva il turno di giorno e iniziava quello serale. C’era molto movimento e nessuno fece caso a lui mentre si dirigeva verso l’archivio.
Si sedette a un terminale, tirò fuori di tasca le copie dei fogli di accettazione e digitò il nome di ognuno degli otto pazienti. Di ognuno lesse l’anamnesi: come aveva detto Clara, avevano avuto tutti delle malattie potenzialmente mortali.