Poi lesse le annotazioni prese durante il ricovero in ospedale. In tutti i casi, i sintomi erano identici a quelli che avevano avuto i suoi pazienti e riguardavano il sistema nervoso centrale, l’apparato gastrointestinale e il sangue o l’apparato immunitario.
Quando lesse la causa finale della morte, scoprì che per tutti i casi, tranne per uno, era dovuta a una combinazione di polmonite, sepsi e choc. L’eccezione era una morte causata da una serie di gravi attacchi epilettici.
A questo punto, sempre utilizzando il computer, David si mise a calcolare il tasso annuo di mortalità rispetto ai ricoveri e scoprì che due anni prima era balzato dal 2,8% al 6,7%, per salire nell’ultimo anno all’8,1%. Poi lo calcolò restringendo il campione ai soli pazienti che soffrivano di cancro, che fossero morti o no di quella malattia. Anche se le percentuali erano ovviamente più alte rispetto al tasso generale, mostrarono lo stesso aumento improvviso.
Il calcolo successivo servì a scoprire quante diagnosi di cancro fossero state fatte annualmente rispetto alla globalità dei ricoveri. In queste statistiche non vide un cambiamento improvviso. In media, erano più o meno identiche a quelle dei dieci anni precedenti. La sua teoria dell’eutanasia ne uscì rafforzata: con un’incidenza stabile di casi di cancro, era aumentata la percentuale di morti per chi ne era affetto.
Prima di andarsene, ordinò al computer di cercare, fra tutti i dati delle persone che avevano avuto a che fare con l’ospedale, le parole «tatuaggio» e «discromia», il termine medico che indicava una pigmentazione anormale.
Ci volle quasi un minuto, ma alla fine sullo schermo apparve una lista. David cancellò rapidamente tutti i casi in cui esisteva una causa medica o metabolica per il cambio di pigmentazione e alla fine ottenne un elenco di venti persone che erano state curate in ospedale, per le quali nei referti si parlava di un tatuaggio.
Usando nuovamente il computer, andò alla ricerca della loro professione e scoprì che cinque di loro lavoravano nell’ospedale. In ordine alfabetico erano: Clyde Devonshire, un infermiere diplomato che lavorava al pronto soccorso; Joe Forbs, un addetto alla sorveglianza; Claudette Maurice, dietista; Werner Van Slyke, dell’ufficio tecnico, e Peter Ullhof, tecnico di laboratorio.
David stampò una copia di quell’elenco, poi se ne andò.
David credeva che la sua visita fosse passata inosservata, ma si sbagliava. Hortense Marshall, dell’ufficio amministrativo, era stata avvisata dell’attività che lui aveva svolto al terminale grazie a un programma di sicurezza che aveva inserito nel computer e l’aveva tenuto d’occhio per tutto il tempo in cui lui era rimasto nel reparto.
Quando lo vide andare via, avvisò Helen Beaton.
«Il dottor David Wilson è stato in archivio», le disse. «Ha richiesto informazioni riguardanti il tasso di mortalità nell’ospedale.»
«Ha parlato con lei?»
«No, ha usato uno dei terminali. Non ha parlato con nessuno.»
«Come fa a sapere che ha richiesto quei dati?»
«Mi ha avvertito il computer», le spiegò Hortense. «Dopo che lei mi ha raccomandato di segnalarle chiunque richiedesse quel genere di dati, ho programmato il computer perché mi avvisi se qualcuno cerca di ottenere da solo quelle informazioni.»
«Ottimo lavoro», si congratulò Helen Beaton. «Apprezzo la sua iniziativa. Quel genere di dati non deve essere di dominio pubblico. I tassi di mortalità sono aumentati, da quando lavoriamo per il CMV. Ci mandano un buon numero di pazienti in situazioni critiche.»
«Sono certa che statistiche di quel genere non aiuterebbero le nostre pubbliche relazioni», osservò Hortense.
«La nostra preoccupazione è proprio questa.»
«Avrei dovuto dire qualcosa al dottor Wilson?»
«No, no. Ha cercato qualche altra cosa?»
«È rimasto qui a lungo, ma non ho idea di che cos’altro abbia cercato.»
«Il motivo per cui lo chiedo è che il dottor Wilson è stato sospeso dal CMV. Se dovesse ritornare, me lo farà sapere?»
«Certamente.»
«Scusi, lei è Carl Hobson?» chiese Calhoun al poliziotto in uniforme che stava uscendo dal diner.
«Sì.»
«Mi chiamo Phil Calhoun.»
«L’ho vista alla stazione di polizia. È amico del mio capo.»
«Eh, ci conosciamo da anni. Ero nella polizia di Stato, ma poi sono andato in pensione. Le spiace se le faccio una domanda personale?»
«Be’, no…» rispose Carl, punto dalla curiosità.
«Carleton, all’Iron Horse Inn, mi ha detto che lei ha un tatuaggio. Siccome sto pensando di farmene fare uno, mi voglio un po’ informare, prima. Sono tanti, in città, che ne hanno uno?»
«Eh, qualcuno.»
«Lei quando se lo è fatto fare?»
«Ero ancora al liceo.» Carl rise imbarazzato. «Un venerdì sera siamo partiti in cinque e siamo arrivati a Portsmouth, nel New Hampshire. Lì ci sono un sacco di saloni dove fanno i tatuaggi. Eravamo tutti brilli.»
«Chissà che male!»
«Non saprei. Gliel’ho detto, eravamo ubriachi.»
«E anche gli altri quattro sono ancora in città?»
«Soltanto tre: Steve Shegwick, Clyde Devonshire e Mort Abrams.»
«E ve lo siete fatto fare tutti nello stesso posto?»
«No. In quattro abbiamo scelto il braccio, chi il bicipite, chi l’avambraccio. Clyde Devonshire, invece, se lo è fatto fare sul petto, sopra i capezzoli.»
«E chi sono quelli che ce l’hanno sull’avambraccio?»
«Non ne sono del tutto sicuro», ammise Carl. «Mi sembra Shegwick e poi quello che ha cambiato città, Jay Kaufman.»
«E me lo farebbe vedere il suo?»
«Certamente!» Carl si sbottonò il polsino e tirò su la manica della camicia. Poco sotto la spalla; un lupo ululava alla luna.
Quando David tornò a casa, scoprì che Nikki cominciava a stare peggio. All’inizio si lamentò solamente di crampi allo stomaco, ma verso sera cominciò a soffrire anche di nausea e di eccessiva salivazione, gli stessi sintomi che aveva avuto David la mattina prima, gli stessi delle cinque infermiere e cosa ben più allarmante, gli stessi dei pazienti che poi erano morti.
Alle sei e mezzo la bimba era apatica, dopo diverse scariche di diarrea, e David era terrorizzato di non averla portata via in tempo dall’ospedale. Però non condivise i suoi timori con Angela, già abbastanza provata nel vedere la figlia stare così male. Cercò di calmarsi, dicendosi che lui e le infermiere ne erano usciti indenni, forse perché si erano esposti a una dose minima dello sconosciuto agente patogeno. La stessa cosa poteva essere accaduta a Nikki.
Calhoun arrivò alle sette in punto, stringendo un foglio e un sacchetto di carta.
«Ho altre nove persone con un tatuaggio», annunciò.
«Io ne ho venti», ribatté David, cercando di avere un tono allegro.
«Mettiamoli insieme», propose Calhoun.
Escludendo i doppioni, misero insieme un elenco di venticinque persone.
«La cena è pronta», li chiamò Angela, che si era data da fare a preparare un vero banchetto, nell’intento di rallegrare gli spiriti.
Calhoun tirò fuori dal sacchetto due bottiglie di Chianti e seguì Angela e David in sala da pranzo.
«Dov’è Nikki?» domandò.
«Non ha fame», rispose Angela.
«Sta bene?»
«Ha lo stomaco un po’ sottosopra», rispose lei. «Non c’è da stupirsi, con tutto il trambusto di oggi. Ma l’importante è che non abbia febbre e che i suoi polmoni siano puliti.»
David strinse le labbra e non disse niente.
«Che cosa facciamo ora che abbiamo l’elenco delle persone con i tatuaggi?» domandò Angela.
«Procediamo in due modi», propose Calhoun. «Prima facciamo una ricerca al computer sui trascorsi di ognuno, e questa è la parte più facile. Secondo, io comincio a parlare con loro. Ci sono cose che dobbiamo scoprire, come per esempio dove ognuno di loro ha il tatuaggio e se è stato danneggiato. Il tatuaggio che è stato graffiato da Hodges doveva essere in una parte del corpo facilmente raggiungibile durante una lotta. Se troviamo qualcuno che ha un cuoricino sul sedere, non c’interesserà troppo.»