Calhoun dormì fino a tardi e arrivò a Bartlet a metà mattinata, deciso a iniziare gli incontri con i dipendenti dell’ospedale che avevano i tatuaggi. In un bar in Main Street consultò l’elenco telefonico e copiò i cinque indirizzi, dopo di che, avendo deciso di seguire l’ordine alfabetico, arrivò fino alla casa di Clyde Devonshire, che abitava sopra una drogheria.
Dopo avere suonato tre volte il campanello senza ottenere risposta, scese in negozio e chiese se l’avessero visto. Intanto ne approfittò per comprarsi una scatola di sigari.
«È uscito presto», gli rispose il commesso. «Forse è al lavoro. Fa l’infermiere in ospedale.»
«Di solito quando rientra?»
«Verso le tre e mezzo o le quattro, a meno che non faccia il turno serale.»
Calhoun riprovò a suonare, poi girò la maniglia e vide che la porta non era stata chiusa a chiave.
«C’è nessuno?» disse forte.
Uno dei vantaggi di non appartenere più alla polizia era di non doversi preoccupare di mandati di perquisizione e altre amenità simili. Così, entrò e richiuse la porta dietro di sé.
Sul tavolino del soggiorno scoprì subito una serie di ritagli di giornale che parlavano del dottor Kevorkian, il noto medico che aiutava i pazienti a suicidarsi, più altri articoli sul suicidio assistito.
Calhoun pensò che si trattava di un argomento che aveva una certa attinenza con l’eutanasia e che a David sarebbe piaciuto fare quattro chiacchiere con Clyde Devonshire.
In camera da letto, ordinata come il soggiorno, andò direttamente alla scrivania, cercando in particolare delle fotografie, ma non ne trovò. Aprendo l’armadio, invece, scoprì tutto un armamentario sado-maso, che comprendeva articoli di cuoio nero con borchie di metallo e catene. Su un ripiano erano allineate riviste e videocassette dello stesso genere.
Calhoun si chiese sogghignando che cosa avrebbe rivelato la ricerca al computer e continuò a girare per l’appartamento, sperando di trovare qualche foto in cui Clyde fosse ritratto con i suoi tatuaggi in mostra, ma non ne trovò.
Stava per ritornare nel soggiorno, quando udì sbattere il portoncino al piano terreno e poi dei passi che salivano le scale. In una frazione di secondo, si chiese se valeva la pena tentare la fuga, ma poi decise di rimanere e si mise davanti alla porta d’ingresso, che aprì nel momento in cui il legittimo inquilino vi arrivò davanti.
«Clyde Devonshire?» domandò seccamente.
«Sì…» rispose Clyde, spaventato. «Che diavolo sta succedendo?»
Calhoun si presentò e gli porse il proprio biglietto da visita, aggiungendo: «La stavo aspettando. Entri».
«È un investigatore?» chiese Clyde prendendo il biglietto.
«Sì. Ero un poliziotto di Stato, ma poi il governatore ha deciso che ero troppo vecchio e così mi sono messo a fare l’investigatore. Mi sono seduto qui ad aspettarla per farle qualche domanda.»
«Be’, mi ha spaventato a morte», ammise Clyde, mettendosi una mano sul petto e lasciando andare un sospiro di sollievo. «Non sono abituato a tornare a casa e trovare qualcuno nel mio appartamento.»
«Mi spiace. Forse avrei fatto meglio ad aspettare sulle scale.»
«Non sarebbe stato comodo. Si sieda. Posso offrirle qualcosa?» Clyde Devonshire posò sul divano il pacchetto che aveva in mano e andò in cucina. «Ho del caffè, oppure…»
«Ce l’ha una birra?»
«Certo.»
Mentre il padrone di casa era in cucina, Phil Calhoun diede un’occhiata al sacchetto gettato sul divano: conteneva alcune videocassette simili a quelle trovate nell’armadio.
Clyde tornò in soggiorno con due birre e si accorse che il sacchetto era stato aperto. Lo prese, dicendo: «Per divertirsi un po’», e ne chiuse accuratamente la sommità.
«Ho notato», commentò Calhoun.
«Lei è etero?»
«A dire il vero, ormai non sono quasi più niente.» Calhoun osservò bene il suo interlocutore. Aveva circa trent’anni, era di media altezza, ben piazzato, con i capelli castano chiari.
«Che genere di domande mi voleva fare?» chiese Clyde.
«Conosceva il dottor Hodges?»
L’uomo gli rispose con una breve risata sarcastica. «Perché mai dovrebbe indagare su quell’essere detestabile che ormai fa parte di una storia passata?»
«A quanto pare, non ne ha una grande opinione.»
«Era un miserabile bastardo, che aveva un concetto antiquato del ruolo degli infermieri. Pensava che fossimo forme di vita inferiori, destinate a svolgere il lavoro sporco e a non mettere mai in discussione gli ordini dei medici.»
«Lei sa chi lo ha ucciso?»
«Non sono stato io, se è questo che pensa. Ma, se lo scopre, me lo faccia sapere, perché mi piacerebbe offrirgli una birra.»
«Lei ha un tatuaggio?» domandò ancora Calhoun.
«Certo, ne ho parecchi.»
«Dove?»
«Vuole vederli?» Alla risposta affermativa, Clyde si tolse la camicia e assunse diverse posizioni da culturista, poi rise. Aveva un tatuaggio a forma di catena intorno ai polsi, un drago sul braccio destro e un paio di spade incrociate sopra i capezzoli.
«Le due spade me le sono fatte fare nel New Hampshire, quando ero ancora a scuola, gli altri a San Diego.»
«Mi mostri meglio quelli sui polsi.»
«Eh, no», rispose Clyde, rimettendosi la camicia. «Se le faccio vedere tutto la prima volta, poi non ritorna più.»
«Lei scia?» cambiò argomento Calhoun.
«Di tanto in tanto. Certo che le sue domande sono a largo spettro.»
«Ha degli occhiali da sci a maschera?»
«Chiunque scii nel New England li ha, a meno che non sia un masochista.»
Calhoun si alzò. «Grazie per la birra, devo andare.»
«Che peccato, stavo cominciando a divertirmi», ridacchiò Clyde.
Calhoun se ne andò volentieri. Quel tipo era decisamente insolito, piuttosto stravagante. Poteva avere ucciso Hodges? Chissà perché, lui pensava di no. Però i tatuaggi sui polsi lo preoccupavano, non avendo potuto esaminarli da vicino. E l’interesse per Kevorkian era soltanto pura curiosità? Per il momento, rimaneva un sospetto, in attesa di ulteriori accertamenti con il computer.
Provò a passare da Joe Forbes, ma trovò soltanto una donna che gli parlò attraverso lo spiraglio della porta e che non volle nemmeno dire a che ora Joe sarebbe ritornato a casa. Poi arrivò davanti alla villetta di Claudette Maurice, per scoprire da una vicina che era in ferie alle Hawaii.
Ritornato sul suo furgoncino, verificò quel era il nome seguente sulla lista: Werner Van Slyke. Anche se aveva già parlato con lui, decise di fargli una seconda visita, dato che la prima volta non sapeva ancora del tatuaggio.
Van Slyke abitava in una stradina tranquilla, dove le case avevano tutte un giardino o un prato davanti. Cosa sorprendente per il capo dell’ufficio tecnico di un grande ospedale, la sua era in uno stato a dir poco pietoso, con l’intonaco che si staccava dal muro e le imposte che pendevano a sghimbescio dai cardini.
Non c’era alcun segno di vita e nel vialetto non c’erano auto. Calhoun si accese un sigaro e attraversò la strada. Premette il campanello, ma non ne uscì alcun suono, allora provò a bussare, senza ottenere risposta.
Girò intorno alla casa, cercando di guardare dentro alle finestre, ma erano così sporche che non riuscì a vedere nulla. Arrivato sul retro, notò due portelloni di legno, tipo boccaporto, chiusi da catenacci. Sicuramente coprivano le scale che scendevano in cantina.
Tornato davanti alla porta d’ingresso, si guardò bene intorno per assicurarsi che nessuno lo vedesse, e provò ad aprirla. Non era chiusa a chiave.