«Era quello che volevo chiederti», lo incoraggiò Angela.
David telefonò ad Amherst, nel New Hampshire, e chiese a sua madre se poteva ospitarli per qualche giorno, spiegando che avevano qualche problema con la casa. Lei ne fu contentissima e rispose che non vedeva l’ora che arrivassero.
Angela provò ancora a chiamare Calhoun, ma invano, allora propose di passare da casa sua. Non era molto lontano e David si dichiarò d’accordo. I Wilson salirono tutti e tre sulla Volvo e andarono a Rutland.
«Ecco, è lì», disse Angela, quando giunsero in vista della casa. Bastò loro fermarsi davanti all’ingresso per rimanere delusi: era evidente che non c’era nessuno e sotto al portico erano accumulati i giornali di tre giorni.
Tornando a Bartlet, Angela e David discussero ancora se fosse il caso di avvertire la polizia oppure no. Angela disse che, quando aveva ingaggiato Calhoun, erano passati diversi giorni prima che si rifacesse vivo con lei. Alla fine decisero di aspettare un altro giorno. Se non fossero riusciti a contattarlo, si sarebbero rivolti alla polizia.
Tornati a casa, Angela si mise a fare i bagagli e Nikki la aiutò. Intanto David cercò sull’elenco telefonico gli indirizzi dei cinque dipendenti dell’ospedale con il tatuaggio, li scrisse su un foglietto e andò al piano di sopra, per dire alla moglie che aveva intenzione di passare davanti alle loro abitazioni, tanto per farsi un’idea di come vivevano.
«Non voglio che tu vada da nessuna parte», gli disse lei con un tono molto severo.
«Perché?» David era sorpreso.
«Primo, perché non voglio rimanere qua da sola. Secondo, sappiamo che questa faccenda è estremamente pericolosa, perciò non voglio che tu vada a curiosare intorno alla casa di un potenziale assassino.»
«D’accordo», si arrese David. «Il primo motivo è più che sufficiente. Non pensavo che ti sentissi nervosa a essere lasciata sola a quest’ora del giorno e, quanto al pericolo, probabilmente quella gente adesso sarà tutta al lavoro.»
«Non puoi esserne sicuro. Perché invece non ci dai una mano a fare i bagagli?»
Era quasi mezzogiorno, quando furono pronti. Controllarono che tutte le porte e le finestre fossero ben chiuse, poi salirono in macchina, seguiti da Rusty, che balzò accanto a Nikki.
Jeannie Wilson, la madre di David, li accolse con calore e li fece sentire subito a casa propria. Albert, il padre, sarebbe rimasto fuori a pesca tutto il giorno.
Dopo che ebbero portato dentro tutti i bagagli, Angela si gettò sul letto nella camera degli ospiti.
«Sono esausta!» esclamò. «Potrei addormentarmi immediatamente.»
«Allora fallo», la incoraggiò David. «Non c’è bisogno che torniamo a Bartlet tutti e due, per parlare con Sherwood.»
«Davvero non t’importa di andarci da solo?»
«Ma no, figurati!» David sollevò l’orlo della trapunta e invitò Angela a infilarsi sotto. Mentre usciva dalla stanza, sentì che gli raccomandava di guidare con prudenza, ma la sua voce era già impastata dal sonno.
Scese al piano di sotto, disse a sua madre che Angela stava facendo un pisolino e consigliò a Nikki di fare lo stesso, ma lei si era già messa a impastare biscotti insieme alla nonna. Salutò tutte e due, spiegando che aveva un appuntamento a Bartlet, e salì in macchina.
Arrivò in città con tre quarti d’ora di anticipo e si fermò per guardare l’elenco dei cinque sospetti, con i loro indirizzi. Il più vicino era Clyde Devonshire. Sentendosi un po’ in colpa, rimise in moto e si diresse verso la sua abitazione. Si disse che le paure di Angela erano eccessive e che, in fondo, non avrebbe fatto niente di male nel dare solo un’occhiata.
All’indirizzo di Devonshire c’era una drogheria. Parcheggiò ed entrò a comprare una confezione di succo d’arancia. Poi, mentre pagava, chiese al commesso se conosceva Clyde Devonshire.
«Certo», rispose quello. «Vive qui sopra.»
«Lo conosce bene?»
«Così così. Viene qui spesso.»
«Mi hanno detto che ha un tatuaggio.»
Il commesso rise. «Ne ha un mucchio.»
«Dove, di preciso?» domandò David, sentendosi un po’ in imbarazzo.
«Ha delle corde tatuate intorno ai polsi», intervenne un altro commesso. «È come se fosse legato.»
Il primo commesso rise ancora più forte. David non capì se si trattasse di una battuta, ma non volle essere sgarbato, così accennò un sorriso. Per lo meno, aveva scoperto che Clyde aveva dei tatuaggi in un punto del corpo che poteva essere facilmente coinvolto in una colluttazione.
«Poi ne ha uno sul braccio, più in alto», aggiunse il primo commesso, «e degli altri sul petto.»
David ringraziò e uscì. Girò intorno all’edificio e individuò la porta da cui si saliva al piano di sopra. Per un breve istante pensò di provare a entrare, ma poi cambiò idea. Non poteva fare quel torto ad Angela.
Risalì in macchina e guardò l’orologio: mancavano ancora venti minuti al suo appuntamento con Sherwood, c’era ancora tempo per un altro indirizzo. Il più vicino era quello di Van Slyke.
Nel giro di pochi minuti, David arrivò nella stradina dove abitava il capo dell’ufficio tecnico dell’ospedale. Rallentò per guardare i numeri civici sulle cassette della posta e frenò improvvisamente: era arrivato all’altezza di un furgoncino che assomigliava tantissimo a quello di Calhoun.
Innestò la retromarcia e parcheggiò la Volvo proprio dietro al furgoncino. Sul paraurti posteriore c’era un adesivo che diceva: QUESTO VEICOLO È SALITO SUL MONTE WASHINGTON. Doveva essere proprio quello.
Scese dalla macchina e sbirciò nella cabina. Sullo sportello aperto del portaoggetti era appoggiato un bicchiere di carta sporco di caffè. Il portacenere era stracolmo di mozziconi di sigaro. David riconobbe il rivestimento interno e il deodorante appeso allo specchietto retrovisore.
Si rialzò e guardò dall’altra parte della strada. Di fronte a quella casa non c’era cassetta della posta, ma da dove si trovava poteva scorgere il numero civico dipinto su una colonna della veranda. Era proprio l’indirizzo di Van Slyke.
Attraversò la strada per dare un’occhiata più da vicino. La casa aveva un grande bisogno di essere riparata e riverniciata. Non si capiva neppure che colore avesse originariamente: adesso sembrava grigia, ma una sfumatura verdognola faceva pensare che un tempo potesse essere stata verde-oliva.
Non c’erano segni di vita e, se non fosse stato per le tracce di pneumatici sulla ghiaia, poteva sembrare che fosse disabitata. David diede un’occhiata nel garage e vide che era vuoto, poi ritornò sulla parte anteriore e, dopo avere controllato che nessuno lo stesse osservando, provò ad aprire la porta. Non era chiusa a chiave e si aprì semplicemente girando la maniglia. Lui la spinse piano e i cardini arrugginiti gemettero.
Pronto a scappare via al minimo accenno di pericolo, sbirciò dentro. I mobili che vide erano coperti di polvere e ragnatele. Inalò a fondo, poi chiamò a gran voce, chiedendo se ci fosse qualcuno in casa.
Non rispose nessuno.
Lottando contro l’impulso di fuggire, David si costrinse a varcare la soglia. Il silenzio della casa lo avvolgeva come un manto e il cuore gli batteva all’impazzata. Non desiderava essere lì, ma doveva pur scoprire che cos’era accaduto a Phil Calhoun.
Chiamò ancora, ma di nuovo non udì risposta. Stava per chiamare una terza volta, quando la porta d’ingresso, che ormai era alle sue spalle, si chiuse sbattendo forte. David quasi svenne dalla paura. Provando il terrore irrazionale che quella porta fosse in qualche modo rimasta bloccata, vi si gettò contro e la riaprì, poi vi mise contro un ombrello polveroso perché non si richiudesse un’altra volta. Non voleva sentirsi prigioniero in quell’edificio.
Dopo essersi un po’ calmato, fece un giro del pianterreno, spostandosi rapidamente da una stanza all’altra, tutte sporche e polverose, fino ad arrivare in cucina, dove si fermò. Sul tavolo c’era un portacenere e in esso era ben visibile il mozzicone di un sigaro. Appena oltre il tavolo si apriva una porta che conduceva in cantina.