David vi si avvicinò e scrutò giù, nell’oscurità. Oltre la porta c’era un interruttore; lo accese e una luce flebile illuminò le scale.
Respirando profondamente cominciò a scendere, fermandosi a metà strada per dare uno sguardo dall’alto alla cantina, ingombra di vecchi mobili e di scatoloni, oltre che di una gran baraonda di attrezzi e rottami. Notò che il pavimento era in terra battuta, proprio come quello della sua cantina, anche se vicino alla caldaia c’era una gettata di cemento.
Continuò a scendere, poi andò verso il cemento, si chinò e lo esaminò da vicino. Sembrava ancora umido. Lo toccò con una mano per accertarsene e rabbrividì. Si tirò su e imboccò di corsa le scale. Aveva visto abbastanza per andare dalla polizia, ma non aveva intenzione di disturbare Robertson e pensò di chiamare direttamente la polizia di Stato. Raggiunta la sommità delle scale, si fermò di botto. Aveva udito un rumore di ruote sulla ghiaia del vialetto. Di fianco alla casa si fermò un’auto.
Per un istante David rimase impietrito, non sapendo che cosa fare. Aveva poco tempo per decidere. Udì chiudere una portiera, poi un rumore di passi sulla ghiaia.
Fu preso dal panico. Chiuse la porta della cantina e ridiscese in fretta le scale. Era certo che ci fosse un’altra uscita, un’altra scala che conducesse direttamente fuori, come a casa sua.
Nella parte posteriore della cantina c’erano diverse porte. David vide che il catenaccio della prima non era chiuso e la spalancò. Dava su un vano illuminato da una lampadina piuttosto fioca.
Udendo dei passi sopra di sé, David si diresse verso la seconda porta e girò la maniglia, ma senza risultato. Riprovò con maggiore forza e alla fine la porta si aprì, cigolando e spostandosi a fatica, come se non fosse stata aperta da anni.
Oltre la soglia c’era quello che David stava cercando: una rampa di gradini di cemento che portava a due aperture inclinate simili a botole. Richiuse la porta dietro di sé e si ritrovò al buio, a parte per una lama di luce che scendeva dalle fessure delle due botole quasi orizzontali.
Salì le scale a quattro zampe, si accucciò sotto le botole, si fermò e rimase in ascolto. Non udì nulla. Mise le mani contro una botola e spinse, facendola sollevare di un solo centimetro, ma non di più. Poi provò anche con l’altra, con lo stesso risultato. Erano chiuse con un catenaccio dall’esterno.
David cercò di restare calmo. Si sentiva le tempie martellare. Si rendeva conto di essere in trappola e la sua unica speranza era di non venire scoperto. Ma l’abbandonò immediatamente, sentendo la porta della cantina aprirsi di botto e poi dei passi scendere le scale.
Si acquattò nell’oscurità e trattenne il respiro.
I passi si avvicinarono, poi la porta dietro la quale si era accovacciato venne aperta e lui si ritrovò a fissare il viso folle di Werner Van Slyke.
L’uomo pareva colto dal panico ancora più di lui. Aveva l’aspetto di una persona che avesse appena assunto una forte dose di droga. Le palpebre praticamente non si vedevano e gli occhi spalancati e fissi gli uscivano quasi dalle orbite, con le pupille talmente dilatate da sembrare che non avesse iridi. La fronte era imperlata di sudore e tutto il corpo era in preda ai tremori, soprattutto le braccia. Nella mano destra impugnava una pistola, puntata contro il viso di David.
Per qualche istante nessuno dei due si mosse. David cercò freneticamente di pensare a un motivo plausibile che giustificasse la sua presenza lì, ma non gli venne in mente nulla. Tutto ciò a cui riusciva a pensare era la canna della pistola che gli ballava davanti. I tremori di Van Slyke aumentavano di minuto in minuto e lui temeva che per sbaglio potesse partire un colpo.
Si rese conto che l’uomo che gli stava davanti era colto da un attacco acuto di ansia, probabilmente scatenato dalla scoperta di un intruso in casa propria. Ricordandosi la sua storia psichiatrica, David pensò che ci fosse la probabilità che Van Slyke in quel momento fosse in preda a una crisi psicotica.
Pensò di parlargli del furgoncino di Calhoun, per spiegare la propria presenza, ma decise che era meglio di no. Chissà che cos’era accaduto fra i due? Menzionare Calhoun poteva esacerbare il suo attuale stato psicotico.
David decise che la cosa migliore era cercare di tenere buono Van Slyke, dirgli che capiva i suoi problemi, la sua sofferenza e rivelargli di essere un medico che lo voleva aiutare. Purtroppo, l’altro non gli lasciò il tempo di mettere in atto il suo piano. Senza dire una parola, allungò una mano, lo afferrò per la giacca e gli diede un violento strattone, facendolo uscire dal nascondiglio in cui si trovava.
Sopraffatto dalla forza di Van Slyke, David cadde a capofitto sul pavimento di terra, andando a sbattere contro una pila di scatoloni.
«Alzati!» Il grido di Van Slyke echeggiò per la cantina.
David si rimise in piedi e lo vide tremare talmente forte da sembrare quasi in preda alle convulsioni.
«Entra in quello stanzino!»
«Si calmi», riuscì a dirgli David e, cercando di avere un tono da psicoterapeuta, gli assicurò che lo capiva, che comprendeva il suo stato d’ansia, ma l’altro reagì sparando una serie di colpi.
David sentì i proiettili fischiargli accanto alla testa e rimbalzare per la cantina, fino a incastrarsi nel soffitto, nelle scale e in una delle due botole di legno.
David balzò nello stanzino che gli era stato indicato e si accovacciò contro la parete di fondo, terrorizzato da ciò che Van Slyke avrebbe potuto fare. Ormai era sicuro che fosse uno psicotico in fase acuta.
Van Slyke chiuse la pesante porta con una tale forza da far staccare alcuni pezzetti di intonaco dal soffitto. Immobile, David lo sentì camminare per la cantina, poi chiudere con il catenaccio la porta dello stanzino dove lui era stato imprigionato e applicarvi un lucchetto. Riuscì a sentire distintamente lo scatto.
Dopo qualche minuto di silenzio, si rialzò e si guardò intorno. L’unica fonte di luce era una lampadina che pendeva dal soffitto e nella stanza si scorgevano i larghi blocchi di granito delle fondamenta. Su una parete erano allineati alcuni bidoni colmi di frutti che parevano pietrificati, un’altra era occupata fino al soffitto da scaffali su cui erano disposti vasetti di conserve.
David si avvicinò alla porta e vi posò contro un orecchio, ma non udì niente. Guardandola con attenzione, notò che il legno recava tracce recenti di graffi, come se qualcuno avesse tentato disperatamente di uscire.
Sapeva che era inutile, ma volle provare: si appoggiò con le spalle alla porta e spinse. Non si mosse di un millimetro. Allora cominciò un esame più minuzioso della sua prigione, ma in quel momento la luce si spense, lasciandolo nell’oscurità più completa.
Sherwood citofonò alla sua segretaria e le chiese per che ora fosse stato fissato l’appuntamento con David Wilson.
«Alle tre», rispose lei.
Sherwood guardò il suo orologio: erano le tre e un quarto. «Non si è fatto vivo?»
«No.»
«Se arriva, gli dica che dovrà prendere un altro appuntamento. Mi porti l’ordine del giorno per la riunione di stasera del comitato esecutivo dell’ospedale.»
Sherwood era irritato dal ritardo di David Wilson all’appuntamento. Per lui, la puntualità era uno dei cardini del suo sistema di valori.
Sollevò il ricevitore e chiamò Harold Traynor, per essere sicuro che la riunione di quella sera non fosse stata cancellata. Una volta era successo, nel 1981, e Sherwood non ci era ancora passato sopra.
«Per le sei, come previsto», gli confermò Traynor. «Vuole che ci andiamo insieme a piedi? È una bella serata e non ne avremo molte, fino all’estate prossima.»
«Potremmo vederci davanti alla banca», rispose Sherwood. «Mi sembra che lei sia di buonumore.»