«È stata una giornata proficua. Ho appena sentito il mio antico nemico, Jeb Wiggins. Si è arreso: sosterrà la costruzione del garage. Dovremmo ottenere l’approvazione del consiglio comunale per la fine del mese.»
Sherwood sorrise. Era proprio una bella notizia. «Devo occuparmi dell’emissione di obbligazioni?» chiese.
«Certo, dobbiamo muoverci. Ho appena telefonato alla ditta che eseguirà i lavori, per sentire se, prima che arrivi l’inverno, si può cominciare la gettata di cemento.»
La segretaria di Sherwood entrò e gli porse l’ordine del giorno che lui aveva richiesto.
«Ci sono altre buone notizie», continuò Traynor. «Mi ha chiamato Helen Beaton, stamattina, per dirmi che il bilancio di questo mese è molto meglio di quanto sembrasse. Ottobre non è stato poi tanto male.»
«Questo mese solo buone notizie!» osservò Sherwood.
«Be’, non proprio. Helen Beaton mi ha anche detto che Van Slyke non si è più fatto vivo.»
«Non ha telefonato?»
«No. Be’, il telefono non ce l’ha, quindi non c’è da sorprendersi. Penso che dovrò fare una scappata da lui, dopo la riunione. Il problema è che detesto entrare in quella casa, mi deprime.»
Inaspettatamente come si era spenta, la lampadina si riaccese. David udì dei passi scendere le scale, accompagnati da un rumore metallico intermittente, poi sentì gettare qualcosa per terra.
Dopo un altro viaggio su e giù per le scale, ci fu un altro tonfo, come di qualcosa di particolarmente pesante. Dopo un terzo viaggio, si ripeté lo stesso tonfo sordo, che gli fece pensare a un corpo che cadeva contro il pavimento in terra battuta. Si sentì percorrere dai brividi.
Approfittando della luce, ricominciò a ispezionare la sua prigione, per vedere se ci fosse una via d’uscita, ma, come sospettava, non ce n’erano.
Poi, all’improvvisò, udì aprire il lucchetto e poi il catenaccio. La porta venne spalancata.
David aveva cercato di farsi coraggio, ma nel vedere Van Slyke rimase senza fiato. Appariva ancora più agitato di prima. Gli scuri capelli incolti non gli stavano più aderenti al cranio, ma erano dritti sulla testa come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Le pupille erano ancora più dilatate e il viso era tutto coperto di sudore. Si era tolto la camicia verde da lavoro ed era rimasto con una maglietta sporca che gli penzolava sopra i pantaloni.
David si rese conto di quanto Van Slyke fosse robusto e scartò la possibilità di uno scontro fisico per cercare di liberarsi. Notò anche che l’uomo aveva un tatuaggio rappresentante un’aquila dalla testa bianca che reggeva la bandiera americana. Era sull’avambraccio destro e il disegno era rovinato da una sottile cicatrice. Allora si rese conto che l’uomo che aveva davanti era con molta probabilità l’assassino di Hodges.
«Fuori!» gridò Van Slyke, aggiungendo una sfilza di imprecazioni e agitando sconsideratamente la rivoltella, tanto che David sentì un brivido percorrergli tutta la spina dorsale. Aveva il terrore che il suo carceriere ricominciasse a sparare all’impazzata.
Eseguì l’ordine e, uscito dallo stanzino, si mise di lato, per tenere d’occhio i movimenti di Van Slyke, che però gli fece irosamente cenno di avanzare verso la caldaia.
«Fermati», gli intimò dopo che aveva percorso qualche metro. David vide un piccone e una pala. Lì accanto c’era la gettata di cemento fresco.
«Scava. Lì dove sei.»
David si chinò a prendere il piccone e pensò di usarlo come un’arma, ma Van Slyke sembrò leggergli nel pensiero, perché si tirò indietro, continuando a tremare e a tenere la rivoltella puntata contro di lui. Non era consigliabile tentare di assalirlo.
David notò alcuni sacchi di cemento e di sabbia e pensò che fosse stato proprio il rumore di quei sacchi gettati a terra che aveva udito dallo stanzino. Calò il piccone sul pavimento, ma riuscì a scalfirlo solo di pochi centimetri. Riprovò ancora, ma senza migliori risultati. Allora prese la pala e raschiò via la terra che aveva smosso. Non aveva dubbi sulle intenzioni di Van Slyke: gli stava facendo scavare la tomba. Si chiese se anche con Phil Calhoun avesse seguito la stessa procedura.
Sapeva che la sua unica speranza era farlo parlare.
«Quanto devo scavare?» domandò, passando nuovamente al piccone.
«Voglio un buco grosso, come quello di una ciambella. La voglio tutta. Voglio che mia madre mi dia tutta la ciambella.»
David deglutì. La psichiatria non era mai stata il suo forte, quando frequentava la facoltà di medicina, ma capì che ciò a cui stava assistendo era chiamato «libera associazione» ed era un sintomo di schizofrenia acuta.
«Tua madre ti dava tante ciambelle?» gli chiese. Non sapeva bene che cosa doveva dire, ma desiderava disperatamente farlo parlare.
Van Slyke lo guardò come se fosse stupito di vederlo lì e rispose: «Mia madre si è suicidata. Si è uccisa», poi rise a squarciagola.
David ricordò un altro sintomo della schizofrenia, chiamato eufemisticamente «affettività inadeguata», e gli tornò alla mente l’altro componente della sua malattia evidenziatosi durante il servizio in marina: la paranoia.
«Scava più in fretta!» gridò improvvisamente Van Slyke, come se si fosse risvegliato da una trance.
David obbedì, ma non rinunciò al tentativo di farlo parlare. Gli chiese come si sentiva e poi che cosa aveva in mente, ma non ottenne risposta. Era come se l’altro fosse completamente assorbito dai suoi pensieri. Il viso era privo di espressione.
«Stai sentendo delle voci?» gli chiese allora, tentando un altro tipo di approccio. Intanto, continuava a menare colpi di piccone. Poiché non ci fu alcuna risposta, sollevò di nuovo lo sguardo su Van Slyke, la cui espressione era nuovamente cambiata, ora esprimendo sorpresa. Aveva gli occhi come due fessure e il tremore era aumentato.
David smise di scavare e lo osservò, colpito dall’intensità di quel mutamento. «Che cosa dicono le voci?» gli domandò allora.
«Niente!» gridò l’altro.
«Sono come quelle che sentivi in marina?» insistette ancora David.
Van Slyke incurvò le spalle e lo guardò più che sorpreso. Appariva scioccato.
«Come fai a sapere della marina? E come fai a sapere delle voci?»
Nel suo tono di voce David colse la paranoia e si sentì incoraggiato: stava cominciando a incrinare la sua corazza.
«So un sacco di cose su di te», gli rispose. «So quello che hai fatto, ma ti voglio aiutare. Io non sono come gli altri ed è per questo che sono qui. Sono un medico e mi preoccupo per te.»
Van Slyke non parlò. Si limitò a guardare David, che continuò: «Mi sembri molto scombussolato. È per i pazienti?»
L’altro rimase senza fiato, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. «Quali pazienti?» domandò.
David deglutì ancora, aveva la bocca secca. Sapeva che stava correndo grossi rischi e sentiva le parole di Angela che l’aveva messo in guardia, ma non aveva scelta, doveva giocare d’azzardo.
«Sto parlando dei pazienti che hai aiutato a morire.»
«Dovevano morire in ogni caso», gridò Van Slyke.
David sentì un brivido lungo la spina dorsale. Allora era stato proprio lui!
«Non li ho uccisi io», sbottò Van Slyke. «Sono stati loro. Lo hanno schiacciato loro il bottone, non io.»
«Che cosa intendi?»
«Sono state le onde radio.»
David annuì e cercò di sorridere in maniera compassionevole, nonostante la paura. Era chiaro che aveva a che fare con le allucinazioni di uno schizofrenico paranoide. «Sono le onde radio che ti dicono che cosa fare?»
L’espressione di Van Slyke cambiò ancora una volta. Ora guardò David come se lo considerasse pazzo. «Certo che no», rispose sdegnato, poi fu di nuovo in preda alla collera e domandò nuovamente: «Come fai a sapere della marina?»
«Te l’ho già detto, io so un sacco di cose su di te», rispose David, «e ti voglio aiutare. È per questo che sono qui, ma non ti posso aiutare, se non mi dici tutto. Voglio sapere chi sono ‘loro’. Tu capisci le voci che senti?»