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L’assistente guardò il dottore, in piedi vicino alla bolla. Questi annuì con un sorriso.

— Vai avanti, Reina. Cominciamo pure.

Uno schermo sopra la consolle si illuminò. Dei colori lo attraversarono, si fusero per formare nuovi colori che rotearono insieme in sfumature diverse. Terra, che per sette anni non aveva visto colori se non nella propria mente, li osservò con le labbra socchiuse. Improvvisamente si portò la mano alla testa e sentì che aveva un casco. Ma con i fucsia, gli azzurri e gli ori che si fondevano davanti ai suoi occhi, il sottile cavetto che le sporgeva dalla testa le sembrava privo d’importanza.

— Terra. Cosa vedi?

— Colori. Stelle che esplodono.

— Terra. — La voce del dottore era lenta, adesso, molto calma. — Voglio che tu faccia una cosa molto semplice. Tutto quello che ti chiederò di fare nei prossimi giorni sarà molto semplice.

— Nulla è semplice.

— L’inizio è molto semplice. Vuoi provarci?

Lei allontanò lo sguardo dallo schermo, e lo guardò negli occhi. — Annullato — disse chiaramente. Un fulmine nero guizzò in un cielo rosso, colpì una chiazza di sabbia viola che si fuse e corse a unirsi alla marea crescente. I colori sullo schermo si dissolsero in scariche di elettricità statica. Qualcuno emise un fischio.

— Come ha fatto? Dottor Fiori, ha evocato quel…

— Sst. Terra. Concentrati sui colori. Ricordali. Lasciali tornare.

Lei pensò ai colori, ed essi tornarono sullo schermo: colori tanto meravigliosi da berli, annusarli, indossarli.

— Bene, bene… Continua a concentrarti… — La voce svanì; i colori danzarono insieme, si separarono, rotearono in un ricordo per lei improvviso e sorprendente come le altre sue visioni. Le serre della minuscola luna informe su cui era nata… l’aria umida e calda, il profumo di una terra aliena, tutti i colori che sgorgavano da quella terra con la stessa spontaneità dei desideri, con la stessa facilità con cui polvere e ghiaccio e magma sgorgavano da tutti i mondi che aveva conosciuto…

— Terra. Dimmi cosa vedi.

— Una rosa — mormorò lei.

5

— Da dove viene quella luce? — chiese il Mago, sorpreso.

I Nova si guardarono l’un l’altro, poi lo fissarono. Nel centro del Constellation Club, con i suoi palchi inondati di luce e le pareti che risplendevano a quell’ora di una morbida foschia ametista, la domanda sembrava assurda. Nebraska si tirò gli smorti baffi ricurvi e si guardò attorno compiacente. Il Professore, con il viso nero attraversato da un fulmine argenteo, strinse gli occhi incredulo.

— Ti dispiacerebbe delucidare?

— Io non vedo nulla — disse il Giocatore in tono vago. Appoggiato al palco, dava l’impressione che il suo lungo corpo emaciato sarebbe crollato in un mucchietto informe se il palco fosse scomparso all’improvviso. — Tranne, lo sai, le solite luci.

— Delucidaci — disse Quasar, assaporando ogni sillaba come se fosse commestibile. Lanciò al Mago un sorriso di sbieco, mettendo in mostra i denti scarlatti. — Moi, ti aiuterò a spiegarti meglio, Magico Capo. Dimmi solo dov’è.

— Non viene dal nostro palco — disse Nebraska. — A cosa assomiglia?

— Che cosa?

— La luce — disse Nebraska, stupito. — Hai appena detto…

— Ah! — Mosse appena il capo, ammiccando. — Ho scorto qualcosa con la coda dell’occhio. Ma forse era solo un’impressione. Adesso non la vedo più.

— Nemmeno io — disse il Giocatore, cercando di essere d’aiuto.

— Parlami di questo “delucidare”. È una cosa legale, o sotterranea?

— Underground — mormorò il Professore. — Se è questa la parola che cerchi.

Quasar mosse le unghie che si intonavano al colore della corta chioma arcobaleno. — La méme chose… è lo stesso. Underground, sotterraneo…

— Il primo ha connotazioni politiche, l’altro deriva da un’antica lingua pre-GLM chiamata latino. La radice è analoga. Una preposizione che significa “sotto” e un sostantivo che significa “terra”.

— Possiamo tornare alle cose serie? — supplicò il Mago. — Prima che l’intervallo sia…

— Comunque, il contrario di legale non è sotterraneo, ma…

— Averno — suggerì il Giocatore. Il Mago piegò le braccia e alzò la voce.

— Che sarebbe il motivo per cui ho convocato la riunione, ammesso che qualcuno se ne ricordi ancora.

— Be’, allora? — chiese affabilmente il Professore. — Siamo tutti qui, e ti ascoltiamo. Sidney ha offerto un aumento di stipendio?

— Sidney ci offre una tournée spaziale, con partenza da Averno.

Si zittirono tutti e lo fissarono; e i loro visi vividamente truccati sembrarono sospesi tutt’attorno, immobili come maschere appese in aria.

Poi Nebraska sorrise, e il Giocatore compì una mossa brusca per non scivolare a terra.

— Averno — disse il Professore riprendendo fiato. — Magico Capo…

— Suoneremo lì una sera, poi andremo sulla Luna, a Rimrock e a Moonshadow, poi a Helios…

— Il sole? — chiese sorprendentemente il Giocatore.

— La città spaziale.

— Un caldo terribile — disse Nebraska. Quasar, senza manifestare emozioni, si accese una sigaretta e soffiò uno sbuffo di fumo sopra la testa del Mago.

— Prigione — disse la ragazza con tono incerto. Aggiunse un’altra parola, breve e intraducibile. — Magico Capo…

— Un unico concerto — ripeté lui, in fretta, notando che la mano le tremava mentre si portava la sigaretta alle labbra. — Ci resteremo solo una notte.

— Ma cosa se ne fanno della musica, su Averno? — chiese perplesso il Professore. — Della nostra, soprattutto.

— Stanno avviando un nuovo programma di riabilitazione. — Sorrise freddamente. — Cercano di portare un po’ di rumore su Averno. Ci ha raccomandati Sidney. L’agenzia della Costadoro sta preparando il resto della tournée. — Annuì al fischio del Professore. — Troppo bello per rinunciare. Se ci facciamo un po’ di pubblicità, forse potremo continuare a fare tournée nel Settore.

Il Giocatore era tornato in vita, e si teneva quasi eretto. Aveva un’aria terrorizzata. — Volare?

Il Mago chiuse gli occhi e li riaprì. — L’idea generale sarebbe questa.

— Spazio?

— È onnipresente — disse serio il Professore.

— No.

— No cosa?

— No e basta. Magico Capo, non posso. Non ho equilibrio.

— Non ti sto chiedendo di camminare su una fune tesa fino ad Averno. Cosa vuol dire, che non puoi? Tu vieni con noi. Non possiamo fare a meno di portarti.

— Qui. — Il Giocatore si toccò l’orecchio. — Non ho equilibrio, qui. Sto male. Rimetto. Anche in cima a un palazzo. Dappertutto.

Il Mago lo fissò con aria distaccata, come se avesse appena versato una pinta di birra nel piano. — Esistono delle cure — disse con decisione.

— Non posso…

— Non puoi tirarti indietro proprio adesso, ecco cosa non puoi. Hai suonato la mia musica per cinque anni. Forse è l’unica cosa che hai dentro quello che chiami cervello, ma la conosci come le tue tasche, e se pensi che i Nova affrontino una tournée spaziale con un cubista raccolto per strada e solo tre settimane di prove, vuol dire che ragioni con i piedi. Verrai con noi e basta.

— Non posso. — Si sottrasse alla collera del Mago, drappeggiando lungo il palco le pallide braccia nervose. Solo le sue spalle, ampie e diritte per l’uso continuo dei cubi, suggerivano la presenza di muscoli sotto la casacca. — Non volo nemmeno su un elicar. Magico Capo, devo restare a terra. Non mi piace l’aria sotto i piedi. Per niente. Mai. Per me — si portò il palmo alle labbra e poi al pavimento — la Terra. Ci amiamo. Non posso farci niente. Sapevo che ti saresti arrabbiato con me un giorno o l’altro.