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— Cosa?

— Ho lasciato il complesso di prima proprio per questo. Dovevamo cominciare ad andare in giro. Volare. Sapevo che sarebbe successo anche ai Nova. — Sospirò. — I complessi migliori mi abbandonano sempre. — Stringendo con le dita il bordo del palco, come se temesse di vederlo volar via, aggiunse: — Mi spiace.

Il Mago lo guardò senza espressione ancora per qualche istante. Poi si girò verso il Professore. — Il tuo equilibrio come sta? — chiese in tono pericolosamente calmo.

— Magnificamente — si affrettò a rispondere il Professore. — Per me — baciò l’aria — lo spazio. Sono con te, Magico Capo.

Il Mago guardò Quasar, che continuava a tirare rapide boccate di fumo. — Non possiamo andare senza il Giocatore — disse lei con noncuranza, ma evitò di guardarlo negli occhi.

— Andiamo lo stesso.

— Ma…

— Il Giocatore verrà con noi o ci troverà un sostituto. Buono quanto lui.

— Buono come me? — disse il Giocatore, dubbioso. Il Mago spostò lo sguardo da Quasar quanto bastava per lanciargli un’occhiata inviperita.

— E lo troverai in fretta. — Tornò a girarsi verso Quasar, concentrando su di lei tutta l’attenzione, perché mentre le sue sopracciglia inarcate con grazia suggerivano indifferenza, gli occhi erano cupi, inespressivi, e il movimento della sigaretta troppo brusco. La ragazza non avrebbe tradotto la propria riluttanza in parole, eppure quella sensazione restava sospesa tra loro, tangibile come la nebbiolina di fumo che la circondava.

— Suoneremo per i detenuti — le disse, perché la donna si opponeva all’autorità costituita istintivamente e senza rimorso. — Quelli dell’Anello Chiaro; non per i poliziotti. — E poi se ne accorse: i suoi movimenti aspri e nervosi confinati in uno spazio troppo stretto, i suoi occhi che si sforzavano di penetrare un’oscurità artificiale.

Respirò a fondo in silenzio; allora lei lo guardò, con un pallido sorriso che prendeva malignamente in giro il proprio terrore.

— Se lo vuoi tu, Magico Capo — disse, rilanciandogli l’avvertimento. Lui non fece niente per intercettarlo.

— Lo voglio — disse. Voleva anche prenderle la mano, baciargliela in segno di gratitudine. Non si mosse, ma in qualche modo bizzarro l’aria tutt’attorno trasmise il suo impulso: lei sembrò sorpresa, e il suo sorriso divenne di colpo più fresco.

— Bene! — disse Nebraska, dimentico degli ostacoli. — Quando partiamo?

— Fra tre… fra meno di tre settimane.

— Userai il Pianto volante?

— Certo.

— È àncora in grado di volare? — chiese il Professore.

— Certo che vola — disse il Mago, indignato. — Ha solo un problemino di ricetrasmittente.

— Un problemino grande quanto?

— Lo sistemerò io.

— L’ultima volta che hai avuto un problemino, l’impianto di refrigerazione si scassò e passammo due settimane senza birra gelata.

— Birra — mormorò Nebraska. — L’intervallo è quasi terminato.

— Ci riuniremo domani sera, per mettere a punto i particolari e scegliere i pezzi da suonare. Se — aggiunse in tono glaciale — con noi ci sarà un cubista.

Nebraska si tormentò i baffi. — Potremmo narcotizzarlo per il viaggio — suggerì. Il Giocatore, come se avesse preso la scossa, si allontanò di scatto dal palco in direzione del bar più vicino, con lo sguardo pensieroso del Mago puntato fra le scapole.

Il Professore scosse la testa. — Come faremo a suonare senza di lui? Suona quei cubi come se fosse dentro la nostra testa e ascoltasse in anticipo la nostra musica.

Il Mago non rispose. Ancora corrucciato, udì i rumori sconnessi e caotici del club svanire lontano, come un’onda di riflusso. Un debole rullio di cubi lo colpì, o forse era solo il fantasma di una musica d’un altro tempo.

Finalmente si mosse, verso quella musica, gli parve. — Andiamo a bere una birra, finché c’è tempo. Non preoccuparti — aggiunse, rivolto allo stupito Professore. — Avremo un cubista.

Aaron, fuori servizio, sorseggiava scotch in uno dei bar più tranquilli: un ampio semicerchio di mogano e ottone che gli ricor dava vagamente antiche navi a vela. Mentalmente esaminava degli elenchi: elenchi di operai, di personale di cliniche private, di reclute dell’esercito, elenchi di nomi che potevano essere inventati, o di vite che potevano essere completamente false, tranne che per un’incongruenza, un particolare trascurato nel momento della falsificazione. Fra 5,2 miliardi di persone sparse dalla Terra agli asteroidi, come poteva trovare qualcuno che non voleva farsi scoprire? Forse lei raccoglieva riso nel Settore Drago, dava da mangiare agli uccelli e alle tigri albine in uno zoo, guidava giri turistici della barriera corallina nel Settore Tramonto. Forse studiava per diventare sacerdote. Rifletté un attimo su quest’ultima possibilità. Ma anche i sacerdoti avevano conti di credito, carte d’identità, cartelle delle tasse. Lei aveva cambiato nome, ma non poteva falsificare ogni singola registrazione del suo passato, e doveva pur esserci quell’unico momento in cui le due cose, il passato e il futuro, si sovrapponevano nella sua complessa identità. Fissò lo scotch, quasi troppo stanco per pensare di berlo. “Perché dovrei prendermela? Dopo sette anni? Che cosa me ne faccio, se mai la trovo? Le sparo perché la sua sorella pazza ha ucciso mia… Voglio trovarla. Devo avere qualcosa da lei. Ne ho bisogno.”

Calmò i suoi pensieri e subito fu avviluppato dai ricordi. Assaporò il fantasma di un bacio. “Aveva un vestito color kaki, l’ultima volta. Mi ha salutato con un bacio e se n’è andata, colpendomi quasi con il fucile mentre saliva sul trasporto truppe. Tre mesi dopo mi telefonò. Era incinta, rideva, la lasciavano tornare a casa prima della scadenza… Disse che avevo un viso da pirata, che non voleva che lo cambiassi mai. Una volta mi tirò contro una padella. Aveva occhi di un nero così intenso che potevi volarci dentro…”

Qualcosa gli colpì gli stivali. Strisciò fuori dal tunnel del passato e ritornò al presente, nel Paese delle Meraviglie di Sidney. Chinò lo sguardo, stupito. Ai suoi piedi erano sparse sei rose. Si lanciò un’occhiata alle spalle, vide una figura completamente avvolta in un bozzolo di lustrini d’oro a parte un braccio nudo ancora graziosamente teso nel gesto del lancio. Anche le ciglia brillavano d’oro. Gli occhi neri sorridevano, ma non c’era modo di dire a quale sesso apparteneva il braccio sottile. Aaron, che diffidava delle ambiguità, lasciò le rose per terra.

— Cos’è successo all’arte della conversazione cortese? — mormorò al suo fianco Sidney Halleck. — È scomparsa insieme al controfagotto. — Si chinò, raccolse le rose dal pavimento e le lasciò cadere sul bancone. Aaron ne sfiorò una: liscio, lucente acrilico nero. Erano tutte perfette e non sarebbero mai appassite.

— A volte è più facile restare in silenzio… Niente confusione, niente imbarazzo, niente ferite… e niente domani.

— Davvero?

— La regola della rosa: una sola notte, niente domande, niente complicazioni…

— Niente nomi?

Si strinse nelle spalle. — Non ha importanza; nessuno ti crederebbe nemmeno se dicessi il tuo nome vero. È la più semplice delle menzogne.

— Sul serio? — Raccolse le rose, le lasciò ricadere con grazia. Aaron sentì che l’affabile espressione del suo viso diventava tesa di colpo.

— È niente spine — aggiunse con tono leggero. — Niente con cui ferirsi.