— Io vedo spine — disse Sidney. Aaron lo guardò. Il viso energico e gentile gli strappò improvvisamente un sorriso stanco.
— Anch’io le vedo. Ma se prendo una rosa, la prendo per quello che vale, e a volte questo significa aggrapparsi con un solo dito all’orlo della vita ancora per un giorno… — Si interruppe, meravigliato di se stesso, e prese il bicchiere. Sidney chiese con un gesto una birra.
— Capisco — disse piano. — Sono così critico solo perché mi intasano gli aspirapolvere. — Sorrise quando Quasar, vestita di cuoio nero dalla testa ai piedi, si avvicinò a loro. Poi diventò tutto rosso quando lei gli buttò le braccia al collo e gli lasciò una macchia di rossetto arcobaleno sulle labbra. Quasar girò sui tacchi a fronteggiare Aaron, aspirò a fondo dalla sigaretta e gliela buttò ai piedi. Lui la schiacciò, con aria serena, mentre lei si allontanava. Sidney si pulì le labbra, con l’aria di chi ha appena visto uno dei suoi robocomplessi pop darsi alla lirica.
— Impulsiva — commentò Aaron. I Nova si sparpagliarono attorno al bar, e il Mago gli fu a fianco.
— Penso — disse Sidney, emergendo da dietro la salvietta — che potrebbe davvero aver successo. Un dinosauro sociale che torna di moda, battendo alla distanza anche le rose.
— Ma di cosa parla? — chiese il Mago ad Aaron.
— Del bacio.
— Sempre a proposito di gesti sociali, la sigaretta mi ha lasciato di stucco. Significa che le piaci, o che non le piaci?
— Significa che vuole darmi fuoco agli stivali.
— È più facile che un giorno o l’altro dia fuoco al mio locale. — Si rivolse al Mago. — Allora, i Nova vanno su Averno?
Il Mago annuì con aria un pochino corrucciata. — In un modo o nell’altro. Il Giocatore soffre di mal di spazio, e Quasar… È schedata, Aaron?
— Sì — disse Aaron. Poi posò il bicchiere, arrossendo un pochino. — Come facevi a sapere…
— Una volta mi hai detto che avevi controllato perfino me, quando ci incontrammo la prima volta. Per quale tipo di reato? Le daranno il passaporto spaziale? La lasceranno entrare su Averno? E dopo la lasceranno uscire?
Aaron annuì. — Ha avuto una gioventù piuttosto scapigliata nel Settore Lumière. Ha vissuto sotto terra, nelle vecchie fognature e nei tunnel della metropolitana. L’hanno accusata di un mucchio di cose, ma gli unici reati che riuscirono a provare sono danneggiamento di proprietà e disturbo della quiete pubblica.
— È stata in prigione?
— Per due o tre mesi. È successo tanto tempo fa che non dovrebbero esserci problemi. A meno che non ne crei qualcuno lei stessa. Non le piacciono i poliziotti.
— Penso che tu le piaccia — disse il Mago, con un insolito lampo di genio. — Quello che non le piace è che tu le piaci.
— Ripeti.
— Lascia perdere. Un pensiero brillante ma fuggevole. Pensare alla gente mi confonde i circuiti. Sei mai stato su Averno?
— Solo una volta. Ho fatto delle ricerche nei loro archivi. Non lasciano entrare gente della Terra. È un posto sorprendente. Tranquillo come un obitorio e efficiente come la morte.
— Ho avuto una piacevole conversazione con il direttore di Averno — commentò Sidney. — Abbiamo parlato di filastrocche.
— Klyos? — disse Aaron, stupito. — Filastrocche?
— Lo conosci?
— No. Ma ne dicono tante su di lui, perfino che sia umano.
— È una cosa così strana? — In un carcere grande come quello, con un simile potenziale di disastro, sì. — Scosse la testa. — Filastrocche. Come hai fatto a ottenere che il direttore di Averno ammettesse anche solo di essere nato?
— Non sono arrivato fino a questo punto — disse Sidney. Il Mago voltò la testa verso il palco dei Nova un attimo prima che la cortina di luce lo avvolgesse e poi si risollevasse, segnalando che mancavano due minuti. Nebraska controllò l’orologio.
— L’intervallo è finito — esclamò allegramente. — Si torna alle miniere di sale.
Il Mago posò il bicchiere. — Ti fermi ancora un po’, Aaron?
Aaron scosse la testa e terminò lo scotch. — Stasera no. C’è troppo casino. Ma presto passerò a trovarti sul Pianto volante, a vedere come te la cavi con quella ricevente.
— Grazie. — Cominciò a girarsi, poi si bloccò. — Stai bene?
— Sì — rispose Aaron, e si accorse che il suo viso si irrigidiva. — Grazie. Sono solo stanco.
Guardò il Mago che attraversava il locale, lo perdette fra la folla, poi lo ritrovò quando prese posto sul palco. Ci fu una cascata di viola; i Nova sparirono nella luce, e Aaron trattenne il fiato di fronte all’improvvisa, possente e assurda visione della luce, una mano aliena che li aveva afferrati come per nasconderli in eterno entro mondi segreti e misteriosi, che si sovrapponevano alla Terra.
Si era conficcato le dita nel muscolo del braccio. Lasciò ricadere le mani, meravigliandosi di se stesso. Troppi messaggi inutili nel rifugio antiatomico? Troppo poco sonno, troppi sogni in un letto solitario? Scoprì che Sidney lo guardava, tutto serio. Fece un sorriso obliquo e raccolse una rosa nera.
— Forse una di queste potrebbe servirmi.
— Parla con Quasar — suggerì Sidney.
— No. Preferisco l’anonimato, di questi tempi. — Guardò corrucciato la sala con occhi socchiusi e critici, poi alzò le spalle, sentendo che la noia gli premeva sulle ossa come la forza di gravità. Soffocò uno sbadiglio, desiderando di essere nel rifugio silenzioso a fare altri elenchi, a cercare nuove tracce. — Sono stanco stasera. Lavoro troppo.
— Aaron, se c’è qualcosa che ti preoccupa…
— Sto benissimo, solo… — Si interruppe, stupito del tono di voce che aveva usato per rispondergli. Si scostò dal bar, e dall’amichevole curiosità di Sidney. — Qualche volta sembra peggio. Sono solo stanco, ma grazie. Buonanotte.
Si immerse nel mucchio di facce, profumi, stoffe metalliche, belletti, voci; mormorò qualche saluto, raddrizzò un ubriaco, scansò innamorati e robocamerieri. Raggiunse infine la porta ed era a metà strada nella notte quando si accorse che in mano stringeva qualcosa. Si sentì pungere il pollice. Avvertì il dolore, e insieme colse un leggero, elusivo profumo. Si fermò, battendo le palpebre.
Qualcuno gli aveva dato una rosa vera.
6
— D’accordo — disse il dottor Fiori, sfregandosi con le dita gli occhi iniettati di sangue. — D’accordo, d’accordo, d’accordo. Forse non ne avremo mai la certezza. Forse non sapremo mai se quello che vediamo è esattamente ciò che lei pensa. Ma dovete ammettere che è difficile dire “manzo arrosto” e pensare contemporaneamente a un elefante.
— E allora perché ci dà in risposta un sole rosso? — chiese Reina.
— Io ho detto “rosso”.
— Perché non un fuoco?
— Perché è pazza.
— E allora come mai… — Reina si interruppe, confusa, restando a bocca aperta. Terra, rannicchiata contro la curvatura della bolla, ascoltava senza interesse le loro parole. Il dottor Fiori sospirò: — Scusami. È una spiegazione stupida. È logico che le sue risposte appaiano un pochino distorte sullo schermo, chissà fino a che punto. Ma io ho detto rosso, e lei ha pensato rosso. La Macchina dei Sogni ha raccolto le sue reazioni cerebrali alla parola “rosso” e le ha registrate. La macchina funziona.
Tutt’e due guardarono la detenuta: sia la giovane donna alla consolle, con la lucida uniforme argentea e le labbra truccate ancora aperte, sia il dottore dall’aspetto arruffato, con i capelli dritti a furia di passarci dentro le dita.
— In lei non riesco a trovare niente di sbagliato — aggiunse il dottor Fiori. — Né lesioni, né squilibri chimici, né escrescenze anomale, né caratteristiche insolite nella comunicazione fra i lobi cerebrali. Dovrebbe essere in perfetta salute. L’unica aberrazione che i test hanno individuato è quella che potremmo definire un “disturbo cerebrale”. Un’eccitazione degli impulsi elettrici senza scopi o risultati apparenti. Non ho mai visto niente del genere… Ma questi disturbi si manifestano a intervalli; fra l’uno e l’altro non c’è motivo per non considerarla cosciente e lucida. E invece lei sembra assuefatta a questi “disturbi cerebrali” e alle immagini che apparentemente si portano dietro. Perché? Forse, vedendo anche noi quelle immagini, potremo conoscerla meglio. — Sorrise a Terra con aria rassicurante, quasi con affetto. E sorprendentemente lei parlò, in tono di ostinata e annoiata sopportazione.