— L’ho controllata — disse il dottor Fiori. Si picchiò con il dito la testa, distrattamente. — I miei stessi pensieri. Variazioni secondarie…
— A Terra dà fastidio se parlo?
— Guardatela. Non sa nemmeno che siete qui. Voi non siete nella visione.
— La visione — ripeté piano Jase. La vita, gli sembrava, era un grappolo di visioni. Le proprie, quelle di qualcun altro, e tutte esigevano attenzione, tutte si collegavano o contrastavano con un altro ostinato miscuglio di aspirazioni ed esperienze. “Io ho la visione di non lavorare qui”, pensò”, “che rimbalza contro la visione di qualcun altro che invece mi vede lavorare qui. La mia visione sgomita la sua, la sua sgomita la mia… Mentre aspettiamo di vedere quale delle due visioni è più forte, il lavoro viene eseguito. Quando la tua visione è così forte che non scorgi più il mondo, quando vedi solo ciò che è dentro la tua testa, allora diventi pazzo. Oppure cambi il mondo”, aggiunse dopo un momento di riflessione.
Esaminò la detenuta, afflosciata su se stessa, troppo persa nella sua stessa mente perfino per battere le palpebre. Non era nemmeno in grado di cambiarsi le calze da sola.
E poi lei gli restituì lo sguardo, guardandolo in faccia con occhi rannuvolati, e lui si sentì venire la pelle d’oca. Distolse lo sguardo e vide sullo schermo un viso d’uomo, con le sopracciglia scure, gli occhi intensi, severo pur essendo paffuto; l’individualità era andata perduta nella trasposizione dagli occhi di Terra alla macchina, ma era ancora il suo viso.
“Al diavolo”, pensò stupito. “Funziona.” — Terra — disse il dottor Fiori gentilmente — puoi parlarci delle immagini che ci hai appena mostrato? Cosa significano?
— Significano… — La voce si affievolì, stancamente. Poi tornò. — Quello che sono.
— Ma che cosa sono?
— Sono quello che esiste.
— Dove?
Lei deglutì. Agitò appena le mani nell’ombra. — Sono i messaggi. Sono le vie d’accesso.
— Vie d’accesso a che cosa?
— Al cambiamento.
— Chi cambierà? Tu?
— Sì. Io.
Un caso disperato, pensò Jase. Ma il dottor Fiori sembrava compiaciuto.
— Quando sono cominciate le immagini?
— Quel giorno — disse Terra.
— Quale giorno? — Si interruppe, poi aggiunse piano: — Quel giorno nel deserto?
Terra strinse i pugni, mosse la testa avanti e indietro. — No. No. No…
— Terra.
— No.
— Terra!
— Quello era nella visione.
— Era… — Il dottore si interruppe di nuovo, a bocca aperta, come se cercasse qualcosa a tentoni. Reina lo guardò, e nel suo viso calmo e sereno le sopracciglia erano sollevate. “Per lei è un gioco”, pensò Jase. “Per lei Terra non è umana, è un puzzle scomposto nei suoi tasselli. Una cosa del genere non potrebbe mai capitare a una donna in tuta argentea chiamata Reina, finché si mette il rossetto ad arte e usa in una frase parole come genesi.” Ad alta voce, disse: — Premeditato? — Il dottor Fiori gli lanciò un’occhiata vaga, come se a parlare fosse stata una sedia.
— Terra, quale giorno, allora? In quale giorno ebbe inizio la visione?
— Il giorno in cui le arance diventarono rosse.
— Il giorno in cui… Terra, puoi mostrarmelo? Cos’altro successe quel giorno? Che cosa vedevi? Rifletti. Ricorda. Cosa successe quando le arance diventarono rosse? Perché diventarono rosse? Mostracelo.
Arance in una fruttiera azzurra. Il loro riflesso su un tavolo cromato. Più in alto, l’orlo di una tendina bianca. Una mano, tesa a prendere un’arancia. Un’ombra rossa a ricoprire il tutto.
— Ebbe inizio — disse Terra semplicemente.
— Cercate di capire — disse il dottor Fiori nel refettorio, davanti a una tazza di brodo. — Sta cercando a tentoni una via d’uscita dalla pazzia. Sta inventando un proprio linguaggio simbolico, ma ha paura di adoperarlo, di adattarvisi fino in fondo. Ha paura di ricordare la causa prima che l’ha condotta alla pazzia. Quello che accadde il giorno in cui le arance diventarono rosse.
— Quindi non fu il massacro in sé — disse Jase cortesemente.
— Non credo. Anche se — ammise — è difficile concepire un evento più traumatico di quello. Qualcosa ha offeso gravemente il suo senso della realtà, il suo senso di equilibrio nel mondo.
— Volete dire che le è successo qualcosa che può giustificare le sue azioni nel Settore Deserto?
— No, no — disse subito il dottor Fiori. — Non cerco giustificazioni. Mi interessa in primo luogo il linguaggio che lei usa, e se è possibile farle superare il trauma. — Sorseggiò il brodo e aggiunse: — A tutti capitano cose terribili. La maggior parte trova un modo per assimilare l’esperienza, per adattarvisi. Noi… Non ve ne importa niente — disse in tono d’accusa. Jase si accorse di portare ancora sul viso una maschera di cortesia e la lasciò finalmente cadere.
— Credo di no — rispose lentamente. — Ha rovinato tutto con le arance. Fino a quel momento riuscivo a seguire un pochino il vostro modo di vedere; forse le immagini bizzarre potevano proteggerla da qualcosa. Ma se la causa prima è stata una fruttiera d’arance, allora penso che non abbia importanza dove lei sia rinchiusa, nell’Anello Scuro o a Nuovorizzonte… È semplicemente fuori di senno, e non riuscirete mai… — Si interruppe, con un gesto della mano. — Cosa ne so, io? Siete voi il dottore. Penso che la vostra macchina sia incredibile, ma con lei perdete il tempo.
— Forse — disse il dottor Fiori, chinando il viso sopra la tazza di brodo bollente. — Come mai avete tanti pregiudizi per una fruttiera d’arance?
Jase si lasciò andare contro la spalliera. — Ha massacrato tutte quelle persone perché un’arancia è diventata rossa. L’idea mi lascia freddo. Non riesco a provare niente per lei in quanto essere umano. Non potrebbe importarmene meno.
— Allora prima ve ne importava.
Lui scosse la testa. — Non me ne importava neanche prima. Qui ha avuto quello che meritava… anzi, meno. Eppure…
— Eppure.
— Non è una criminale. Nelle sue azioni non c’è malignità, interesse, rabbia, nessuna motivazione umana. Non si possono provare sentimenti per una persona così aliena. Tranne forse paura.
— Di lei? O di voi stesso?
Jase guardò il dottore. Già da tempo aveva scoperto che la migliore difesa contro domande del genere era quella di rispondere. — Penso — disse infine — che la mente delle persone sia come una casa. Piena di camere da letto, cantine, soffitte, sgabuzzini, cucine, soggiorni eleganti, giardini… Piena di porte. Quando avrete raggiunto la mia età, è molto probabile che abbiate già aperto tutte le porte. Che sappiate in quali sgabuzzini sono racchiusi i mostri, quali esseri orribili vivono in cantina, quali impulsi sanguinari si nascondono dietro la porta della soffitta. Saprete, allora, quanto valgono per voi. Io sono a mio agio, in casa mia. Se qualcuno suona il campanello, lo faccio entrare.
Il dottor Fiori posò la tazza e sorrise. — La prima volta che ho parlato con voi non credevo che vi avrei trovato simpatico.
— Be’ — disse Jase a disagio. — Non si può mai sapere.
— Non dovreste giudicarla troppo frettolosamente, a questo punto. Le fruttiere d’arance non fanno impazzire la gente. Nel suo cervello non c’è niente di sbagliato. È lei stessa che si rende pazza. E ci dirà perché. Non può parlare. Le parole la terrorizzano. Sono troppo precise, o troppo imprecise, chissà. Oppure non abbiamo ancora inventato le parole per esprimere quello che lei ha visto. Per cui racconta la sua storia in un linguaggio che è muto, nella speranza che qualcuno impari ad ascoltare.