7
Il Mago sedeva da solo nel Constellation Club, ad ascoltare. Suoni che gli ricordavano altri suoni. Attorno a lui il silenzio diventò gradatamente stratificato e intessuto di musica. Le pareti erano color indaco. Fra le tre e le quattro del mattino il mondo era più immobile che mai. Il Mago poteva persino udire il lontano ululato lamentoso dell’ultima sirena che continuava a mettere in guardia contro la nebbia. Le sue dita trovarono sulla tastiera le due note di basso fra cui si nascondeva il gemito della sirena. Sfiorò i tasti, sovrapponendo le due note alla sirena, continuando ad ascoltare.
Allungò la destra verso la chiave di soprano, un’increspatura di nebbia sullo sfondo del basso triste e pensieroso. Nella sua mente udì la voce vivace e irrequieta dell’arpa a canne, il tuono dei cubi. Il viso latteo della nebbia profilato contro l’azzurro cupo del cielo, il frastuono tumultuante della marea, la sirena che gemeva, con la sua voce personale e insistente, di cose invisibili, segrete, inaspettate, che potevano o non potevano essere racchiuse nella nebbia…
Un rumore di passi dissipò la nebbia. Sorpreso, il Mago si girò sullo sgabello del piano. Attorno a lui le cupe pareti del locale si riformarono. Al loro interno c’era un silenzio vuoto. Sul palco l’arpa a canne e i cubi, coperti per non prendere polvere, avevano suonato solo nella sua mente.
Aaron, in uniforme, si bloccò a metà di un passo. — Scusami — disse. — Ho visto che la porta esterna era aperta. Ho pensato bene di controllare… È tardi per stare ancora qui.
Il Mago annuì e si alzò per sgranchirsi le gambe. — Abbiamo tenuto una riunione dopo la chiusura. Io mi sono fermato per accordare il piano. Credo di essermi distratto. Certe notti questo posto è molto tranquillo. Più tranquillo anche dello scalo della lancia.
— Ho interrotto il genio al lavoro?
Il Mago rise. — Figuriamoci. Ascoltavo la sirena per la nebbia.
Aaron attraversò la sala e si lasciò cadere sulla rampa del palco. — È una notte tranquilla — commentò. — Una volta all’anno tocca anche a noi una notte così. Niente luna piena, zuffe, guidatori indisciplinati, baruffe familiari. Teppisti e cecchini, e persino le bande da strada, se ne stanno a casa. La persona più pericolosa che ho visto stanotte sei tu.
— Un po’ tocco ma inoffensivo — mormorò il Mago. Aaron lo guardò premere un tasto, chinarsi verso la corda ed effettuare una microscopica regolazione.
— Sei pronto per la tournée?
— A parte la ricevente che è impazzita del tutto, uno schermo riflettore ammaccato, un rumore non identificato nelle tubature, un’ex-detenuta come cantante e un cubista catatonico, siamo pronti.
— Il Giocatore viene con voi?
— Lui sostiene di no. Forse saremo costretti a rapirlo.
Aaron emise un brontolio. — Conoscerai pure qualcuno.
Il Mago scosse la testa e accordò un’altra nota. — Nessuno bravo come lui. Andiamo lo stesso, comunque.
— E come? Senza il cubista?
In risposta risuonò ripetutamente un sol basso. Aaron rimase in ascolto, ma il minuscolo cambio di tono gli sfuggì. Si appoggiò stancamente su un gomito. Una chiamata di servizio gli risuonò nell’orecchio, facendolo irrigidire di nuovo; la chiamata non era per lui. Comunque il suo corpo si agitò, poi si calmò. Aveva bisogno di un intervallo, e dentro quel silenzio azzurro cupo poteva quasi sentire la musica della serata appena trascorsa, e della serata seguente, che si librava in attesa al limitare del tempo.
Si scoprì a sbadigliare; il Mago smise di suonare un la bemolle.
— Hai l’aria di chi non ha dormito — commentò. Aaron alzò appena le spalle.
— Continuo a sognare. — Il Mago gli dedicò un’attenzione impersonale, e lui aggiunse, come se parlasse fra sé: — A volte attraverso periodi di brutti sogni… Sei mai stato sposato?
— Una volta. — Ridacchiò, per qualche motivo. — Ci siamo lasciati da amici. E tu?
— Una volta. — Attese che un’altra nota si spegnesse. Il viso del Mago era calmo, assorto. La nota si arrestò. Nel silenzio tutta la musica si arrestò improvvisamente.
Aaron alzò la testa, vide che il Mago lo fissava. Il respiro gli si fermò; si sentì rizzare i capelli. Per un attimo il fantasma di una donna si era levato, non richiesto, fra loro. Il Mago, con il viso pallido, gli occhi spalancati, sembrava scorgerla, sembrava aver raccolto dal luogo più intimo della mente di Aaron un’eco del suo tormento. Aaron, irrigidito sotto lo sguardo del Mago, aspettava come un condannato che lui la riportasse indietro con le parole.
Ma era stata poco più di una semplice sfumatura di angoscia. Gli occhi del Mago tornarono di nuovo al tasto che sfiorava.
— Un incidente?
Aaron deglutì. — Sì.
— Mi spiace. È questo che continui a sognare?
— Ritorna, di tanto in tanto.
— Non me ne hai mai parlato.
— No. — C’era un duro avvertimento nella sua voce. Il Mago chinò la testa sul lavoro. Il si bemolle risuonò una volta, due. Aaron sospirò. Parlò di nuovo e la nota si smorzò. — È… Ho sempre trovato difficile parlare di cose del genere. Forse è per questo che sono costretto a sognarle.
— È probabile. Scusa se te l’ho fatto ricordare.
— Non sei stato tu — disse Aaron disperatamente. — Ti sei limitato a tirarmelo fuori dalla testa. Ti sei limitato…
Il Mago lo guardò di nuovo, cercando di ricordare. Il tasto si muoveva ancora sotto le sue dita. Il suo viso aveva perso il colorito e la serenità; gli occhi si erano leggermente socchiusi, come sotto un vento gelido. — Era nella tua voce.
Aaron scosse la testa, ostinato. — Era nel silenzio che ha seguito la mia voce.
Il si bemolle risuonò ancora una volta. Poi il Mago alzò la mano, si toccò gli occhi con le dita. Si avvicinò al bordo del palco e si lasciò cadere vicino ad Aaron.
— Non lo so. Può darsi.
— Sei cresciuto con questo dono?
— Che mi ricordi, non l’ho mai fatto di proposito. Non ci bado affatto. A volte sento delle cose, tutto qui. Succede a tutti. Anche a te.
— Io non ti tiro fuori cose dalla mente.
— Perché non ci conservo molto, oltre alla musica — disse il Mago, in tono così ragionevole che Aaron sorrise. — In questo momento ci conservo il suono di quel si bemolle. Lo ascoltavo, ne sentivo la vibrazione nell’aria quando ti sei messo a parlare; forse ho anche raccolto accidentalmente da te qualche sfumatura sottintesa. — Si interruppe, rimettendosi in ascolto, o scandagliando il silenzio. Aaron resistette all’impulso di scostarsi da lui. Tenne gli occhi fissi su una porta lontana per escludere il Mago dalla sua vista e lasciò che il suo silenzio escludesse il Mago dalla sua mente.
Non udì il Mago muoversi; il si bemolle risuonò ancora, delicato, remoto. Si accorse di aver ripreso a respirare, di aver ripreso colore. Allora desiderò che le parole tornassero, perché perfino lui riusciva a sentire il gelo che il Mago aveva lasciato nell’aria. I fantasmi, ricordò, emanano freddo. Si girò, senza sapere se le parole avrebbero superato l’irrigidimento che si sentiva in gola. Ma il Mago si era di nuovo chinato sul piano, lasciando Aaron alla sua intimità. Aaron si girò di nuovo, fissò la porta aperta, e per un attimo gli parve che fosse un ingresso verso il nulla, verso un mondo in cui scorrazzavano fantasmi, alla ricerca del passaggio inesistente che li avrebbe riportati al passato.
La porta si spalancò.
Aaron si bloccò sulla rampa, intrappolato, nonostante tutto il suo allenamento, da un’ambiguità. Una donna apparve fra le ombre; lui la guardò, senza muoversi, senza respirare. Lei lanciò un’occhiata al palco, al Mago perso dentro il piano, intento a rafforzare e ingentilire quell’unico piccolo suono che ne traeva. Si richiuse piano la porta alle spalle. Uscì dall’ombra, e Aaron riprese a respirare.