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— Suoni ancora Bach, Magico Capo?

— Oh, certamente.

— E il Pianto volante? — Le pagliuzze improvvisamente restarono immobili; il suo viso, dietro il sorriso, era immobile. — Ce l’hai ancora?

— Lo useremo per la tournée — disse il Mago, e le luci rotearono ancora nella mano di lei. — Proveremo qui dopo l’orario tutte le sere delle prossime due settimane. Ce la fai?

— Certo.

— Di’ a Nebraska dove sono i tuoi cubi e lui ti aiuterà a trasportarli. Domani chiamerò l’agenzia per farti avere un passaporto spaziale… No, non posso chiamare finché non avrò aggiustato quella maledetta ricevente…

— Al passaporto ci penso io — disse lei in fretta. — Magico Capo, ti serve aiuto per la riparazione? Da piccola rabberciavo la navetta spaziale di papà. Darò un’occhiata alla ricevente. Oh, sono anche capace di tenere la rotta, nello spazio. L’ho imparato in uno dei miei giri. Mi pare con i Cygnus. — Rise all’espressione del Mago. — Be’, mi annoiavo.

— Signora dei Cuori, sei un dono del cielo.

— Forse. Forse però il dono sei tu… — Infilò di nuovo la scarpa nella sacca, con il viso nascosto dai lunghi capelli spettinati, scarlatti.

— Dove siete nata? — chiese Aaron, piuttosto incuriosito.

Lei si tirò indietro i capelli con uno scatto della testa e lo guardò. Alzò la mano a sistemare una forcina. Disse lentamente: — Adesso mi ricordo di voi. Il Mago e Sidney Halleck giocavano a poker. Voi guardavate le carte di Sidney.

Lui annuì. — Sidney aveva anche la carta che vi raffigura.

Con le dita che tormentavano ancora la forcina, lei sembrò all’improvviso accorgersi di lui; la sua statura e il suo peso, il timbro della voce, le rughe del viso che testimoniavano la sua scelta di vita, l’ombra della barba del mattino sulla mascella. Aaron vide che agli occhi della ragazza era diventato qualcosa di più che un oggetto di scena nell’universo del Mago. Lei aprì bocca per dire qualcosa, si arrestò. Poi pronunciò la frase, in tono esitante, sorpreso: — Verrete a sentirmi suonare?

Aaron sorrise. Si sentì stanco, poi piacevolmente stanco, e seppe che, per motivi ancora insondabili, quel giorno avrebbe dormito senza sognare.

— Ne sarò felice — rispose.

Tornò la sera dopo, e quella dopo ancora, e tutte le sere seguenti, sottraendo tempo ai suoi turni di pattuglia per scivolare dentro la porta del Constellation Club alle due, alle tre, alle quattro del mattino, per guardare lei. A volte aveva l’occasione di parlarle, a volte no. Le sere in cui era fuori servizio rimaneva ad ascoltare le prove dall’inizio alla fine, seduto al bar accanto a Sidney Halleck, mentre la squadra delle pulizie girava senza far rumore per il vasto locale, aspirando, lustrando. Anche se non era in grado di distinguere un cubista dall’altro, a volte i potenti ritmi controllati delle sue bacchette lo scuotevano come se sentisse l’irrequietezza, le parole di un essere nascosto sotto di loro nelle profondità della terra. Circondata dai cubi caldi e splendenti, con il viso concentrato e assente, bagnata dalla luce d’oro e dai fuochi interiori dei cubi, la ragazza riuscì a evocare dalla mente di Aaron una parola che lui non sapeva nemmeno di conoscere.

— Sembra una fata…

Sidney, che sorseggiava birra accanto a lui, sorrise. — Forse lo è davvero. È comparsa dal nulla e ha esaudito il desiderio del Mago. Hai controllato in archivio se c’è qualcosa su di lei?

— No — disse Aaron, sorpreso. — Perché avrei dovuto?

— Lo fai sempre.

Aaron restò in silenzio. Si chiese se il mistero stava proprio lì, in una delle schede del GLM. Tutta la sua ossessione si riduceva a un’unica, arida frase: moglie… deceduta. Una frase che non diceva nulla. La fuggevole visione di un compagno di viaggio nel triste deserto gelido che conosceva così bene poteva essere spiegata in modo altrettanto conciso da una o due parole negli archivi del GLM, ammesso che riuscisse a riconoscerle. Oppure, secondo gli standard del GLM, forse non meritava neppure una parola.

— Questa volta — disse piano, distogliendo il viso da Sidney — preferisco chiedere.

La ragazza sembrava attirata da lui, e durante gli intervalli gli si avvicinava chiacchierando amichevolmente, come una barca che sfuggisse la tempesta in un porto tranquillo. Gli disse molte cose. Aveva percorso strade a lui familiari, aveva visto gli stessi bar rumorosi e pieni di fumo, gli stessi club sfarzosi e inebrianti, aveva udito gli stessi brandelli di musica uscire da porte aperte quando la foschia dell’estate non tornava al mare e la luna piena era appesa nel cielo come un’arancia insanguinata. E tuttavia non gli disse niente.

— Perché non rispondi mai a una domanda diretta? — le chiese Aaron una notte, mettendo da parte la prudenza. Lei si limitò a ridere.

— Per esempio?

— Come ti chiami? Dove sei nata? Ti togli mai il trucco di scena dal viso?

— No — disse lei. E poi: — Be’, a volte. Ma mai e poi mai in presenza di qualcuno. Sai come si chiama il Mago?

— Sì, ma ho giurato di mantenere il segreto.

— Be’, io no. Non gliel’ho mai chiesto. Non è importante. Come per Nebraska. Una volta gli chiesi dove si trovava il Nebraska, quando aveva ancora questo nome, e lui mi disse che era da qualche parte nel Settore Costa Orientale. Viene da pensare che sia nato lì, in quello che era il Nebraska pre-GLM, non è vero? Ma per i lunghi baffi e la pronuncia strascicata si è ispirato a qualche antico telefilm, e il luogo che lui riteneva il Nebraska era invece la Virginia Occidentale. Però qualcosa va perso, se si conosce tutta la storia, non credi? Qualcosa di piccolissimo, ma importante. A modo suo.

— Tu dove sei nata?

— Sulla Luna.

— Ah… — Sidney alzò una spalla, coperta da un velo di sudore che di colpo fece svanire ogni pensiero coerente dalla mente di Aaron. — Mi hai rivolto una domanda. Ti ho risposto.

Nel suo subconscio la cercava, come cercava guai nella città irrequieta; ogni pulsazione di cubi che udiva sembrava provenire da lei. In qualsiasi cosa fosse impegnato — servizio di aeropattuglia, dispacci, rapporti, risse per le strade o inseguimenti all’impazzata — finiva inevitabilmente per entrare nel Constellation Club nelle ore in cui c’erano i Nova. Sono come drogato, pensò disperatamente. Intossicato da una cubista con il viso d’oro. Lei non pretendeva nulla: abitava nella sua mente ma non interferiva con il suo lavoro. Si limitava a essere presente nei suoi pensieri, perché lui lo voleva, fino al momento in cui entrava nel club e scorgeva i suoi occhi esplorare le luci e le ombre finché non lo trovava e smetteva di cercare.

Aaron saltò l’ultima seduta di prove. Incidenti e rapporti da redigere con cura lo tennero lontano finché, quasi all’alba, entrò stancamente nel club. Sidney c’era ancora, in quell’ora perduta, non reclamata né dalla notte né dal mattino. Aaron si unì a lui. Sul palco il Mago, colorandosi di verde, scosse la tastiera in un ultimo accordo. Un fiotto di luce schizzò dall’arpa a canne. La Regina di Cuori incorniciò il proprio viso con le bacchette e le calò con uno schianto. Il palco si oscurò. Ci fu un attimo di silenzio. Poi dal buio provenne un unico, dolce fraseggio di Bach.

Aaron e Sidney applaudirono. Nebraska riaccese le luci del palco. Quasar si lasciò cadere sulla rampa, scosse selvaggiamente i capelli riempiendo l’aria di bagliori.

— Merde - disse raucamente. — Che ore sono?

La risposta di Nebraska si mutò in uno sbadiglio. Il Mago lanciò un’occhiata al polso, ma la sua mente sembrava ancora avvolta dai colori e non registrò niente. Sidney disse: — Le quattro e mezzo. Buon giorno, Aaron. Chi ti ha strappato le tasche?