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— Merde - ripeté Quasar. Si girò, rivolse un ghigno maniacale pieno di riflessi argentei alla Regina di Cuori. — Hai suonato magnificamente.

La Regina di Cuori fece per appoggiarsi alla parete, poi si ricordò che non c’era nessuna parete. I suoi occhi avevano trovato Aaron, oltre la luce. Lui inspirò silenziosamente perché, come quando l’aveva vista per la prima volta, si sentiva pietosamente in balia e del passato e del futuro. Ecco l’assuefazione, pensò, la liberazione dai ricordi, da se stessi. Ecco che lei lo riportava con forza al limitare del territorio nascosto dietro i suoi occhi. Lei non sorrise; i suoi occhi, sopra i cubi luminosi che si raffreddavano lentamente, acquistarono una sfumatura più cupa.

Il Mago si avvicinò al banco del bar. — Com’è andata? — chiese a Sidney. — Siamo all’altezza di Averno?

— Probabilmente provocherete una disgregazione permanente delle sue onde sonore.

— Non è quello che vogliono? — Allungò la mano oltre Aaron per prendere una salvietta. — Cos’è successo ai tuoi calzoni?

— Non sono stato abbastanza veloce — disse distrattamente Aaron, guardando la Regina di Cuori che scendeva dal palco. Il Mago gli lanciò uno sguardo incuriosito. Nascose dietro la salvietta il sorriso improvviso che gli saliva alle labbra. Sidney, amabile stregone del suo stesso reame, andò dietro il banco a versare birra.

La Regina di Cuori si unì a loro. Non guardò Aaron, ma gli si fermò vicino, e lui capì con un sussulto quanto poco mancava alla partenza. La domanda di lei, genericamente indirizzata all’universo, era rivolta a lui: — Ti è piaciuto? — Finalmente lo guardò. Nelle ombre fumose e ingemmate i suoi occhi erano color dell’aria.

— Immensamente — disse Aaron.

Lei sorrise. — Ma tu non c’eri!

— C’ero io — disse Sidney. — Sei stata fantastica.

Il Professore si drappeggiò sopra il banco. — Sono morto e sulla strada dell’Averno. Signora dei Cuori, ci hai trascinati a tal punto che temevo che la mia arpa si schiantasse.

— Siete stati voi a trascinare me — disse lei. Si alzò i capelli sulla nuca, se li raccolse sulla testa. — In occasioni come questa santificherei chi ha inventato la vernice per il viso a prova di sudore.

— L’agenzia si è messa in contatto con te? — chiese Sidney al Mago.

Il Mago scosse la testa da sopra il boccale di birra. — Perché?

— Oggi mi hanno detto che il tuo concerto a Helios sarà registrato via satellite e trasmesso sulla rete NSBC.

Nebraska restò a bocca aperta. — Scherzi! Noi? — Batté un colpo sulla schiena del Mago. — Andiamo in onda!

Il Mago si scosse dalle dita gocce di birra. — I Nova sono un complesso da club. Come diavolo hai ottenuto che i mass-media ci prendessero in considerazione?

— Interesse umano. Il primo complesso che suona su Averno, l’effetto sui detenuti nello spazio, eccetera. Imbastiranno una storia sul programma di riabilitazione, ma non sono riusciti a ottenere il permesso di portare una troupe su Averno, per cui vi filmeranno a Helios.

— Sidney, sei un genio.

— Lo so — disse Sidney, imperturbabile. Aaron si girò verso la Regina di Cuori, con il desiderio di guardare ancora i suoi occhi. Ma lei non era più al suo fianco. Si guardò attorno stupito e la ritrovò sul palco, intenta a vagare senza scopo intorno ai cubi. Si stupì del suo insolito silenzio, del distacco che aveva improvvisamente messo fra sé e gli altri. Fece per muoversi verso di lei, si fermò accanto al banco, poi comprese quanto era grande il vuoto che si lasciavano dietro le parole non dette, le azioni solo contemplate. Avvertì l’attenzione del Mago come un faro puntato addosso. Il vecchio impulso familiare di proteggere le proprie azioni, di nascondere la propria vita, lo trattenne ancora un istante al banco, a sorseggiare birra, senza ammettere niente.

E poi pensò: “Al diavolo tutto quanto.”

Posò la birra e attraversò il locale, salì la rampa fino al palco dove la Regina di Cuori continuava a fissare i suoi cubi. Quasi freddi, sfolgoravano ancora confusamente di tanto in tanto dall’interno, come stelle in via di estinzione.

Fermo accanto a lei, incerto, disse la prima cosa che gli venne in mente. — Hai già aggiustato la ricevente?

Lei scosse la testa all’improvviso, quasi con rabbia, come se rispondesse a una domanda rimasta inespressa. Forcine a cuore scivolarono via; lei le raccolse. Lui l’aiutò. Le sue dita le sfiorarono una volta la guancia, e il viso di lei seguì la carezza, cercandola. Incrociò lo sguardo di lui, d’un tratto turbato, vulnerabile. Aaron le prese la mano, le aprì le dita, le riempì il palmo di cuori.

— No — disse lei. Inspirò profondamente. — È più complicata di quanto credevo.

— Io ho accesso alle informazioni sulle spaziomobili da pattuglia, ai manuali di manutenzione per veicoli venduti a privati. Le otterresti egualmente dalla banca dati della biblioteca, ma così non dovrai pagare la tariffa di consultazione. Il Mago lo apprezzerà.

Lei sorrise debolmente. Il sorriso non le arrivava agli occhi. — Non voglio… È tardi. Ossia, presto. Sei ancora in servizio.

— Fra 30 minuti ho l’intervallo per la colazione. Aspettami qui.

— Aaron… — Si interruppe, scosse ancora la testa. Ma non sottrasse la mano, non si mosse. Lui infilò la mano nell’unica tasca non strappata, le aprì l’altra mano e le mise sul palmo una rosa, sbiadita fino a diventare di un polveroso color borgogna e tuttavia ancora lievemente profumata. Lei fissò il fiore; Aaron vide che deglutiva.

— Mi è capitata fra le mani dal nulla una notte. L’ho portata per te. — Lei era sempre silenziosa. Lui aggiunse, sentendosi all’improvviso incerto, inutile: — È solo una rosa appassita. Lo so. Non ci sono tariffe da pagare. Per me aveva un significato, tutto qui.

Lei lo guardò; senza parlare, gli disse finalmente qualcosa. Attorno a loro le pareti tenebrose cominciarono a turbinare di luce.

8

Volarono in alto sulla città, parlando, mentre la luna, enorme e pallido disco rifrangente, li fissava da sopra il mare, e il cielo orientale acquistava lentamente sfumature perlacee.

— I cubi — disse lei. La voce bassa era arrochita dalla mancanza di sonno. — Solo i cubi. Me ne sono innamorata quando avevo 13 anni.

— Sulla luna.

Lei guardò la luna per un istante, perplessa, come se si fosse intromessa inaspettatamente nella parte sbagliata del mattino. — La luna. Sì. Ho fatto girare i nastri musicali di mia madre fino a consumarli. Mi esercitavo in fraseggi e schemi con matite, forchette, coperchi di tegami. Andavo nella serra dove mia madre lavorava e capovolgevo i vasi vuoti e vi battevo sopra. Volevo forza nei cubi. Volevo che sembrassero vivi sotto il mio tocco, volevo che si scaldassero per me, che cominciassero a fumare, a cambiare colore… Ero ossessionata, innamorata. Vivevo in un sogno. Pensavo che se avessi posseduto una batteria di cubi sarei stata felice per tutta la vita. A suonare musica nel mio angolino privato di luna.

— Però l’hai lasciata, la luna — disse piano Aaron.

Lei chinò la testa; Aaron non poteva vedere la maschera d’oro nascosta dai capelli. — Sono morti. I miei genitori. In un incidente, quattro anni dopo. I regolamenti sociali del GLM dicevano che eravamo troppo giovani per stare da sole…

— Eravate?

Alzò la testa; si tirò indietro i capelli con tutt’e due le mani, aggrottando le sopracciglia alla luna. — È così perfetta — disse in tono sognante. — Così pura. Sembra l’occhio di Dio, lassù, senza ombre o ambiguità. Da vicino, le ombre ci sono… Io. E mia sorella. Lei adesso è su Rimrock; ha sposato un geologo. Per cui fummo mandate sulla Terra. Nel Settore Costadoro. Che possiede, come scoprii ben presto, una batteria di cubi in ogni angolo. Era come cadere in un lungo tunnel tenebroso e sbucare in una specie di paradiso malfamato…