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Informazione altamente riservata.

Rivolgersi al direttore di Averno, Klyos Jason, per informazioni.

Lei cancellò la schermata. Aaron si avvicinò porgendole il caffè.

— Grazie.

— Hai terminato?

— Sì. — Reclinò la testa sulla spalliera della sedia e gli sorrise, e Aaron desiderò strapparla a quel luogo silenzioso, senz’aria, senza sole e portarla nell’alba piena di goccioline salmastre. Il sorriso di lei si irrigidì improvvisamente. La sua mano lo sfiorò appena, per la prima volta. — Non ti metterò nei guai, vero? Per aver usato il tuo computer?

— Mi piacciono i guai — disse lui.

La riportò indietro in volo nella città interna. Quando finì il turno di servizio, lei lo aspettava ancora, fra le ombre sgualcite e punteggiate di luce del suo letto. Commosso, non si fidò a parlare. Si sedette sul letto, stanco, sudato, e le baciò il palmo della mano. Lei si chinò verso di lui e strusciò la guancia d’oro contro la barba ispida, girando la testa finché le labbra si incontrarono. Lui le afferrò l’altra mano e le spalancò le braccia contro la luce. Lei lo tirò giù, giù, dentro un fiume d’oro e d’avorio pieno d’oblio.

Aaron udì la propria voce mormorare da lontano, o forse era solo nella sua mente. La luce gli colpì gli occhi. Udì le strida dei gabbiani fuori dalla finestra. Più tardi si scoprì con la guancia appoggiata a una coscia. Con una mano teneva coperto un seno, con l’altra stringeva un piede. Sollevò quel piede, incuriosito, come se avesse dimenticato di chi era, e ne baciò il collo. Qualcuno disse qualcosa.

— Come? — Sollevò la testa, battendo le palpebre. Il viso di lei, selvaggiamente dorato, lo fece trasalire. Lei lo guardò in silenzio, a lungo, con occhi profondi, indecifrabili. Poi riunì i pezzi di se stessa strappandoli alla sua stretta, gli mise le braccia al collo e lo baciò gentilmente.

— Hai dimenticato che ero io — disse. — Non è vero? Stavi pensando a…

Lui le strinse il viso fra le mani, la fissò pieno di sgomento. — Non vorrai sbattermi via dal letto per questo?

— Ho troppo bisogno di te. — Le sue mani si mossero; la sua voce si attenuò in un sussurro. — Ho bisogno di te, ti voglio, Aaron Fisher…

— Chi sei?

— La Regina di Cuori.

— Chi sei?

— Una cubista. Una donna che lavora duro, alla quale tu hai dato una rosa.

— Chi sei?

Il suo sussurro gli scivolò lungo il ventre, gli lambì l’inguine come fuoco. — Non chiedermelo, non chiederlo mai, è l’unica domanda che non devi mai farmi…. — Lui mandò un grido. Poi se la tirò addosso, muscolo contro muscolo, osso contro osso, come se gli ostinati confini che li dividevano fossero inconsistenti quanto l’aria.

Si svegliò lentamente, la vide destarsi con un mutare di respiro, un battere di ciglia. Il suo viso era quasi completamente nascosto dalle braccia e dai capelli; c’era solo la curvatura di un sopracciglio, un occhio. Fece scivolare la mano sotto l’ascella fino a sfiorarle la guancia e vide l’occhio sorridere.

La tirò su di sé; lei abbassò la testa, gli circondò la sua con le braccia. In quel rifugio sicuro si baciarono fino a restare senza fiato, e lasciarono fuori i fantasmi che li conoscevano e li cercavano invano.

Lei si sedette su di lui, guardandolo dall’alto. Le sue mani riposavano sulle sue cosce. Aaron si mosse, cominciò a dire qualcosa, poi rimase in silenzio, sorridendole. Lei gli passò le dita lungo le labbra, l’orecchio. Poi rimase di nuovo immobile, con le mani posate sul suo petto e la testa china, rispecchiando il sorriso di lui.

Quando Aaron si svegliò nuovamente, era solo. Erano le due del pomeriggio. La luce calda sembrava solidificata sul pavimento. Per la prima volta si accorse di quant’erano impolverate le finestre. Le pareti bianche erano spoglie. Il regolamentare tappeto del ghetto sembrava un deserto grigio e squallido. “Dovrei mettere un po’ d’ordine”, pensò con sorpresa. Per anni era vissuto spartanamente, senza desiderare nient’altro che l’elicar più veloce e le migliori apparecchiature per il rifugio. Si alzò a sedere, ammiccando ai suoi piedi, e cominciò pian piano a capire quanta parte di sé la Regina di Cuori avesse lasciato in quella stanza solitaria, nel suo cuore.

Qualcosa lo fissava. Girò la testa e vide il messaggio luminoso. Allungò la mano oltre il letto e lo toccò, sbadigliando.

Mentre rispondeva alla chiamata del Mago, ricordò che il Pianto volante era in attesa del decollo.

— Magico Capo? — disse mentre lo schermo del Mago si illuminava. — Sei ancora qui?

— Aaron — disse il Mago con aria trasognata; e Aaron gli ricordò: — Mi hai chiamato tu.

— Ah. — Il Mago ridacchiò. — La tournée comincia a darmi alla testa. Ho chiamato un paio d’ore fa, cercando la mia cubista. È già qui.

— Davvero? — Si strofinò gli occhi, ancora assonnato, cercando di schiarirsi le idee, mentre il Mago aspettava pazientemente. — Siete in partenza?

— Stiamo aspettando di essere rimorchiati in posizione di lancio.

Aaron rimase di nuovo in silenzio, senza pensare, lasciando che i sentimenti arrivassero. Si presentarono con semplicità, come la rosa tirata fuori di tasca. — Voglio venirvi a salutare.

Arrivò allo scalo con l’elicar, trovò la Regina di Cuori seduta sulla scaletta del Pianto volante, con il mento posato sul palmo della mano. Il resto del gruppo era dentro; udì i motori che si scaldavano.

Lei si alzò senza una parola, gli mise le braccia attorno al collo. I suoi odori erano diversi — sapone, profumo, vernice da viso — ma l’oscuro calore non era scomparso. Lui alzò finalmente la testa, aprì gli occhi alla lucentezza dei suoi capelli. — Be’ — disse. — Addio. — La maschera di lei era perfetta: il viso di una carta da gioco, oro, rosso, grigio luminoso, la Regina di Cuori, la dama che passa da una mano vincente all’altra.

— Addio.

Nessuno dei due si mosse. Alla fine lei gli tolse le mani dal collo; lui sentì la riluttanza, vide il vuoto improvviso dei suoi occhi. Deglutì, respirando affannosamente, sapendo che stava per inoltrarsi in un turbine di nebbia che poteva nascondere un terreno solido o una lunga caduta nel nulla. A stento si rese conto di dire: — Sono troppo vigliacco. Voglio vederti ancora.

— Sì — mormorò lei, e allora lui vide il sorriso con cui era nata. Poi lei si tirò indietro, gli occhi scuri, sorpresi, il viso stilizzato, elegante che nascondeva un conflitto sconcertante.

— Ti chiamerò. — La sua voce era turbata. — Al ritorno. Se. Quando. Aaron…

— Se…

— Se mi vuoi ancora.

— Perché…

— Voglio solo che tu sappia una cosa, prima.

— Prima di che?

Lei sospirò, chiuse gli occhi, cercò di vedere nel buio. — Voglio che tu sappia che sarai nella mia mente. Come i cubi. Come la musica del Mago. Sempre. Dimmi addio.

— Addio — disse lui, completamente confuso. Lei lo baciò e si girò. E allora il ricordo lo colpì, pieno di forza e di terrore, mentre il portello si apriva e si richiudeva alle sue spalle. Voleva gridarle dietro, battere i pugni contro il portello. “Ho detto addio già una volta!” Rimase impietrito, con la bocca asciutta, separando in fretta il passato dal presente, pregando il cosmo che fosse possibile, mentre lei, con la sua tenebrosa visione negli occhi, prendeva posto vicino al Mago per guidare il loro cammino verso Averno.

Il computer di Averno aveva registrato come al solito la richiesta di informazioni sui suoi segreti più gelosamente custoditi, e ne aveva presentato quel mattino una copia agli occhi annebbiati di Jase. Il direttore la fissò, sorseggiando il caffè. “Ragazzini”, pensò. “Compiti di scuola.” Ma non l’affidò agli archivi; rimase seduto a fissarla finché Nils, sul punto di terminare il turno, venne a guardare da sopra la spalla.