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La Regina di Cuori aprì gli occhi l’istante successivo, ammiccando, senza aver l’aria di accorgersi dell’attenzione del Mago. — Dove siamo? — Consultò il quadro comandi, poi si passò con aria stanca e assente le dita fra i capelli e continuò finché la capigliatura le galleggiò attorno languidamente, come un’alga marina. Adesso tutti la guardavano incantati, persino Quasar.

— Ancora un’ora — disse il Mago.

Lei annuì, soffocò uno sbadiglio, con gli occhi sullo schermo. — Avevo dimenticato quant’è bello, quassù — mormorò. — Non ero più stata nello spazio dalla tournée dei Cygnus, due anni fa.

— Quando hai imparato a fare l’ufficiale di rotta — disse il Mago. Lei sembrò cogliere una sfumatura insolita nella sua voce; si girò verso di lui, sorridendo, ma esitò leggermente prima di rispondere, e lui non riuscì a penetrare il sorriso di quegli occhi.

— Quando ho imparato a navigare nello spazio. Sì. Vi ho portati fin qui, Magico Capo. Non ho dimenticato quello che ho appreso, vero? È come guidare una bicicletta. Almeno, così dicono; in vita mia non ho mai guidato una bicicletta. Ma come mai secondo te ci sono cose che bisogna studiare e ristudiare, e cose che non si dimenticano più? Si può dimenticare una lingua, ma non si dimentica l’addizione e la sottrazione. O i suoni… non si dimentica la differenza fra il canto di un uccello e la voce umana.

— Non lo so — disse il Mago, confuso dalla sua affabile parlantina. — Sarà l’istinto.

— La matematica non è istinto — disse il Professore in tono sprezzante.

— Pensavo più che altro alla bicicletta. Il senso dell’equilibrio collegato all’istinto di sopravvivenza.

— Che cos’è… — cominciò Quasar; il Professore le rispose senza lasciarle finire la domanda.

— Come respirare. Respiri per vivere; smetti di farlo, e muori. Ma non è un atto compiuto consapevolmente. Finché vivi, respiri. O lo fa il tuo corpo. Come allontanare di scatto la mano dal fuoco. O scappare da un pericolo.

Quasar annuì, esaminando una rigatura sull’unghia. Prese di tasca il tubetto di smalto. — Mi è capitato di scappare da un pericolo. E quella volta ho imparato una cosa bizzarra. Quando scappi, scappi verso il passato, non raggiungi mai il futuro. Il passato corre più veloce di te, e aspetta che tu lo raggiunga. Devi sottrarti al pericolo camminando, devi uscire dal passato. Perché quando scappi guardi indietro, ma quando cammini guardi al futuro.

Il Professore e il Mago si scambiarono un’occhiata. — Direi che è un istinto di sopravvivenza — disse il Professore.

La Regina di Cuori raccolse i capelli fluttuanti e se li legò alla nuca. — Come fai a sapere queste cose? — chiese a Quasar. La sua voce suonò brusca, quasi sgarbata, all’orecchio del Mago. Quasar rimise a posto il pennello con uno scatto secco.

— Le so. — Guardò il puntino di luce davanti a loro, sulla rotta del Pianto volante. Poi sorrise, con occhi cupi, irridenti. — Guarda te stessa. Noi eravamo nel tuo passato. Sei tornata da noi. Il Giocatore ti ha trovata e ti ha riportata indietro. Perché?

“Perché la musica del Mago doveva essere suonata.”

— E questo — mormorò il Professore — rende il Mago un megalomane, né più né meno che il GLM.

— Come? — disse il Mago, sorpreso. Il Pianto volante cantò delicatamente; il Mago distolse lo sguardo dallo schermo e ruotò sul seggiolino per accostarsi al quadro comandi e rispondere al messaggio sulla tastiera. Tornò nella posizione di prima; il Professore ruppe il silenzio.

— Ebbene?

— Ebbene, cosa?

— Cos’ha detto?

— Oh, due parole di cortesia. Una spaziolancia è entrata nel campo dell’analizzatore. — Alzò improvvisamente lo sguardo. — Cos’è questa storia che sono un megalomane?

— Quasar ha mai detto qualcosa che avesse un senso? — ribatté il Professore. — I suoi occhi si spalancarono, mentre lei toglieva di nuovo il cappuccio al tubetto di smalto. — No! Non farlo! Ritiro tutto, scusami…

— Non basta per ammansirmi.

— Vieni in cucina. No, meglio ancora, nella stiva. Nebraska ha messo laggiù tutto lo scotch.

— Mi trascinate in un carcere spaziale. Non mi permettete di fumare. E poi mi insultate. Per questo, inonderò tutto il Pianto volante di goccioline viola galleggianti.

Adesso il Mago le dedicava tutta l’attenzione; metà allarmato, metà ridendo, con le mani alzate a palme aperte in segno di pace, la supplicò senza parlare. Lo sguardo bruciante di Quasar mandò un lampo folle. La Regina di Cuori sollevò languidamente la mano e le sottrasse abilmente il tubetto di smalto.

— Che cos’è? Ma è meraviglioso! Non ho mai visto niente di simile. È nuovo? Hai altre tinte? Non hai un colore che si intoni ai miei capelli?

— Non hai un colore che si intoni al mio fulmine? — chiese umilmente il Professore. Quasar, divertita, rabbonita, lo guardò in cagnesco, poi scaricò la sua irrequietezza sulla Regina di Cuori.

— Ho un colore che si intona alla tua maschera.

La Regina di Cuori si sfiorò la guancia con aria incerta. — La mia vernice per il viso?

— La tua maschera. So quel che dico. Non te la togli mai, davvero. Nemmeno per fare l’amore.

— Quasar — disse il Mago, anche se nello stesso tempo la sua mente si soffermava a esplorare quella possibilità.

— Vedete la vernice — disse Quasar, testarda. — Ma non vedete i suoi occhi.

— Certo che li vedo — disse il Professore. — Sono spalancati davanti a me, e sorridono. Non è altro che il suo viso da palcoscenico. Il viso di uno dei migliori cubisti del mondo. La gente lo riconosce dappertutto. È un simbolo.

— Cos’è un simbolo?

— Il suo viso d’oro. Qualcosa che significa qualcos’altro. Qualcosa a cui reagisci senza pensare. Come un istinto, ma culturale, anziché biologico.

— Comment?

— Un oggetto fisico o un disegno che rappresenta un’emozione, una credenza, un rituale, un’esperienza culturale…

— Che lingua parli? — chiese gelidamente Quasar. Il Professore sospirò.

— Magico Capo…

Il Mago aprì una tasca nel bracciolo del seggiolino del comandante. Sul palmo della mano galleggiava oro. Lui alzò l’oggetto fra indice e pollice: un piccolo cerchio perfetto. Il Professore glielo prese, sorridendo.

— Un anello nuziale. Dove l’hai trovato?

— Apparteneva alla mia bis-bisnonna. Una volta l’ho portato davvero. Ora è solo carburante di riserva, se mai mi trovo bloccato da qualche parte senza crediti. — Aggiunse, rivolto a Quasar: — È un simbolo: un uomo e una donna si scambiano un anello d’oro come promessa di amarsi e fare l’amore solo fra loro per tutta la vita.

Quasar sollevò le sopracciglia, disgustata. — Tu non l’hai mai fatto, Magico Capo. Vero? — Il Mago storse la bocca. Ripose l’anello. Nebraska fluttuò su di lui come un angelo. — Fatto cosa? — chiese interessato.

— Sto cercando di spiegare a Quasar cos’è un simbolo — disse il Professore.

— Perché?

— Lasciamo perdere.

— È facile — disse Nebraska, lisciandosi un baffo fuori posto. — È come un ferro di cavallo. Inchioda un ferro di cavallo sulla porta, e ti porterà fortuna.

— Questa è superstizione, non un simbolo.

— D’accordo, l’arcobaleno, allora. È un simbolo di buona fortuna. Oppure un quadrifoglio.

— Cercavo un esempio un pochino più profondo.