Il Mago, cullato in un piacevole stato quasi di trance dalla voce di Sidney, fu scosso da quell’ultima parola. Spostò lo sguardo dall’ombra al piano di quercia.
— Fame… — D’un tratto il suo viso sembrò vulnerabile, privo delle difese dell’esperienza, aperto alla suggestione.
— È solo un’idea vaga… sto pensando al punto d’inizio delle cose.
— Quale? Di cosa?
— La ricerca di una cosa amata, desiderata, per cui ci si è sacrificati. Quella per esempio che ti ha posseduto quando eri giovane, spingendoti a imparare quei milioni di note.
— Non…
Sidney si interruppe, perplesso per l’intensità del Mago. — Cosa c’è? — chiese infine. Sembrò che il Mago lo udisse da molto lontano.
— Qualcosa — mormorò.
— Cosa? Cominci a ricordare?
— No. Qualcosa che hai detto tu. Le tue parole. Il punto d’inizio. — Era di nuovo immobile, con il corpo teso, e ascoltava parole dentro la sua mente. A poco a poco le linee del suo viso mutarono, diventarono più definite, familiari. I suoi occhi misero a fuoco la birra, e lui vuotò il bicchiere. Sidney gliene versò un altro.
— C’era un fantasma, annidato in quel piano insieme ai topi; e stanotte e strisciato dentro di me, si è divertito per quattro ore, poi se n’è tornato a dormire. Ecco la tua risposta, Sidney.
— Perché mai — obiettò Sidney — un fantasma vecchio di 75 anni avrebbe dovuto suonare il Cocktail di Hanro?
— Allora Aaron ha ragione. Sono un vecchio pazzo. Sono stato qui troppo a lungo.
— Sciocchezze. Ci sei rimasto solo cinque anni.
Il Mago lo guardò con aria interrogativa. — Cinque anni. Tre anni più di ogni altro complesso.
— Non posso farci niente se i Nova sono l’unico complesso oltre gli Historical Curiosity che dopo sei settimane ho ancora voglia di ascoltare.
Il Mago sorrise. — In vino veritas, come direbbe il Professore. Il padrone di un club famoso confessa che preferirebbe bere birra svaporata anziché ascoltare la musica per cui paga fior di soldoni.
— Pensa a quanto sono migliorati i Nova da quando sei venuto qui. Malgrado tu abbia cambiato cubista nel frattempo.
— Non l’ho cambiata.
— Sì, invece.
— Non dopo essere venuto qui.
— No. La cubista che era con te prima del Giocatore. La prima volta che ti ho ascoltato, nel… dov’era? Quel posto che sembrava una sala mortuaria, con bare al posto di tavolini.
— Ah, la Casa dei Marmi.
— Esatto. La cubista con forcine a forma di cuore nei capelli.
Il Mago annuì, mentre il viso gli si illuminava al ricordo. — La cubista con il viso d’oro… Ha suonato con noi per due anni, finché non ci hai assunti tu.
— Perché l’hai lasciata andar via?
— Non sono riuscito a trattenerla. Era troppo brava… L’ultima volta che ne ho sentito parlare, faceva il giro del Settore con gli Alien Shoe. — Mandò giù la birra, ricordando. — Era giovane, troppo brava per l’età che aveva. Quando la incontrai, aveva già suonato in complessi per tutto il sud del Settore Costadoro. Era venuta al nord per un impulso improvviso, mi disse. Entrò, si sedette con noi, e non l’avrei più lasciata andar via. Era la miglior cubista con cui avessi mai suonato… Ora, credo che i Nova andrebbero abbastanza bene, per lei. Però… — Interruppe bruscamente il corso dei pensieri, e bevve invece altra birra. Sidney finì la frase per lui.
— Però siete solo un complesso da club.
— Non è che voglia lamentarmi — disse mitemente il Mago. — Quale altro proprietario di club rimarrebbe a sentirmi suonare per tutta la notte, e mi offrirebbe birra a colazione?
— Non farci caso — disse Sidney con indulgenza. — Ma se ti metti in testa di farla diventare un’abitudine, chiederò anche a te lo scontrino.
Le pareti tutt’attorno tremolarono al cambiamento di ora. Il color chartreuse si scaldò fino a diventare un arancione acceso che li costrinse a chinare il capo sul boccale di birra.
— Oh Signore — esclamò Sidney in tono infastidito. — Non avevo idea di cosa succedesse qui a quest’ora del mattino.
Il Mago mandò giù un bel po’ della seconda birra, poi si stiracchiò, piacevolmente brillo. — Al tuo posto controllerei il palco, per accertarmi che tutto sia spento.
— Togliti i neurocavi — suggerì Sidney. Il Mago si accorse allora che portava ancora il collare, e se lo tolse arrotolando metodicamente il cavo mentre tornava indietro.
Ricoprì il pianoforte. Il suo tecnico del suono, un uomo allampanato che strascicava le parole e si faceva chiamare Nebraska, aveva già spento tutte le apparecchiature. Il Mago rimase fermo un attimo, guardando con aria accigliata il disordine, come se si aspettasse di vedere qualcosa, ma non ricordasse cosa. Sfiorò il pianoforte, rassicurato dal suo profilo familiare. Poi saltò giù dal palco e raggiunse Sidney, che lavava i due bicchieri. L’uomo li asciugò, li rimise a posto, lanciò un’occhiata amorevole al suo locale già pronto per un’altra nottata.
— Ma prima — mormorò, come ripetendo un appunto mentale — c’è un messaggio da Averno.
Il Mago lo fissò e si sentì rizzare i capelli. Ebbe di nuovo la visione: gli anelli rotanti, chiaro e scuro, che giravano senza rumore dentro e fuori l’ombra della Terra. Quell’accenno aveva provocato in lui un brivido lieve, un tremito psichico. Il brivido terminò, passò, e lui fu di nuovo in grado di parlare.
— Averno — mormorò. — Ecco cosa facevo mentre suonavo.
— Cosa?
— Lo osservavo.
2
Jason Klyos esaminò con occhio torvo il proprio riflesso sulla parete del bagno. “Undici anni in questa ciambella galleggiante” si disse “e sono ancora intrappolato nel medesimo maledetto specchio. Quand’è che me ne andrò da qui? Quando?” Premette il pulsante dell’intercom e ordinò: — Caffè. Caldo, e subito.
— Sì, signore.
Si sporse ancora un pochino verso lo specchio ed esaminò le venuzze degli occhi. L’attaccatura dei capelli neri retrocedeva sempre di più di anno in anno, come una lenta marea. Non che avesse importanza, lì…
L’intercom emise un segnale, due lievi note musicali. Schiacciò il pulsante con irritazione. — Che c’è?
— Signore, Jeri Halpren.
Jase emise un brontolio, chiedendosi cosa avesse fatto di male per meritarsi la voce di Jeri ancora prima del caffè. Jeri Halpren era il direttore del programma di riabilitazione di Averno, nominato dal GLM; aveva capelli finti, denti finti, e la mattina si svegliava pieno di zelo missionario, che si sforzava di trasmettere a Jase prima ancora che gli si schiarisse il cervello dai sogni della notte. “Adesso ricordo”, pensò quest’ultimo. “Continuo a rimandare. Ho rinviato già tre incontri. Qualcosa che ha a che fare con… l’arte?” Il viso nello specchio aveva un’aria di disgusto, come se il suo proprietario avesse calpestato qualcosa di spiacevole.
— Signore — disse Jeri Halpren in tono di rimprovero. — Avevate promesso che mi avreste incontrato stamattina. So benissimo che non volete essere disturbato con questioni di riabilitazione, ma ieri mi avete detto di mettere in programma questa chiamata. È prevista per le dieci in punto.