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— Quale chiamata?

— Vi avevo detto…

— No, non mi avevate detto niente. — Tenne la mano sotto l’acqua, se la passò sul viso. Senza nessun motivo il volto di una ragazza che aveva conosciuto 25 anni prima gli attraversò la mente. Sentì il profumo del sapone e della luce del sole nei suoi capelli, e si scoprì a sorridere. — Ah, sì, ricordo. — “Tutte quelle teste di rapa di scienziati si sbagliano”, pensò. “Il tempo novn è un cerchio né una linea retta. È una boccetta di profumo. Ne cogli una zaffata qui, una là…” — Sì — disse, interrompendo Jeri. — Sì, sì, sì. Autorizzerò la chiamata. Con chi dovrei parlare? Oh, non fateci caso, me lo direte dopo. Sono in bagno. — Interruppe la raffica di proteste e immediatamente l’intercom squillò di nuovo. — Fiamme d’inferno! — imprecò. — Non potete aspettare che raggiunga l’ufficio?

— Signore…

Il segnalatore della porta ronzò, poi si illuminò e passò attraverso il triplice controllo di identità.

— Identità vocale 246-859-7. Johnson, Samuel Nyler. Stato… — cominciò a dire la porta.

— Signore, il caffè!

— Entra! — ruggì Jase, e la chiusura scattò al suono della sua voce. Trasse un respiro profondo, annusando di nuovo il Tempo: vento, e una casa la cui porta non reagiva alle parole. Johnson, Samuel Nyler, occhi cisposi e divisa immacolata, posò sul tavolo il vassoio del caffè. Caffè fresco, non la plasticaccia nera distribuita da una venatura della parete. “Ecco a cosa si riducono i miserabili vantaggi”, pensò. “Al caffè, e al privilegio di fare la conoscenza di qualche genio artistico.” Fra i due, preferiva ancora il caffè.

— Signore — disse l’intercom posto sul tavolo. Si trattava del suo vice, Nils Nilson. Stava per terminare il turno di servizio e aveva una voce stanca. Jason lo trovava simpatico, per cui abbassò il tono di qualche decibel. Il grande sogno di Nils era di prendere il posto di Jase; il sogno di Jase era di lasciarglielo. Ma sulla Terra la ruota che muoveva le fortune degli spaziali era lubrificata dall’infinita malvagità della burocrazia del GLM. Visto che Jase voleva tornare sulla Terra, lo avrebbero tenuto nello spazio per sempre. Visto che Nilson avrebbe svolto un lavoro eccellente come direttore di Averno, avrebbero trovato qualcuno che non ne era all’altezza, per, rimpiazzare Jase quando si fosse ormai ridotto a un vecchio incartapecorito.

— Cosa c’è, Nils?

— Scusate, signore. Un certo dottor A. Fiori chiama da Nuovorizzonte. Vuole parlare con voi personalmente.

— Oh, per… ma che diavolo vuole? Digli di andare all’inferno. — Trangugiò il caffè. Dall’intercom provenne una risatina soffocata. — E va bene. Gli parlerò. Quando sarò riuscito ad andare in ufficio. Non prima. Chi è, a proposito?

— Piazzista di attrezzature — credo.

— E cosa vuole?

— Un ergastolano.

— Digli che non se lo sogni nemmeno.

— Glielo dirò — rispose Nils, con uno sbadiglio.

La stanza rimase in silenzio. Jase bevve il caffè con cautela. Per un attimo si perse in fantasticherie. Pancetta e focacce calde. “Dimagrisco di dieci chili, appena arrivo sulla Terra. Magari mi faccio anche una plastica. Il naso non è poi male. Cambio il colore degli occhi da mrn a vrd. Capelli. Cinquantasei anni, direttore di Averno. Un bel po’ di soldi, e quassù nessun posto dove spenderli. Chiederò il trasferimento al Settore Tramonto. Spiagge. Sole. Oppure al Settore Arcipelago. Tiepide acque azzurre. Forse mi limiterò a dare le dimissioni…” Ma sapeva che non l’avrebbe fatto mai, proprio come sapeva che Averno non l’avrebbe mai lasciato andar via. Malvagità.

Mezz’ora dopo, in ufficio, leggeva sullo schermo della consolle i rapporti dei turni di guardia, mentre Nils, seduto alla scrivania, completava il resoconto scritto della nottata. L’ufficio si trovava nel Mozzo di Averno, la fortezza circolare al centro dei due anelli, collegata a questi ultimi da due raggi: uno per i mezzi di trasporto, e l’altro per le tubature dell’acqua, i generatori, la serra principale. Il Mozzo ruotava sul proprio asse per generare l’effetto gravitazionale. Ospitava il grande computer centrale, l’impianto di telecomunicazione, una piccola armeria, gli alloggiamenti degli ufficiali superiori, e inoltre cucine, serra e generatore autonomo. Conteneva anche un minuscolo scalo, con una spaziolancia sempre pronta. In cinquant’anni, la lancia era stata sostituita 12 volte, ma non era mai stata adoperata.

Per qualche minuto l’ufficio rimase nel silenzio più assoluto. Il tappeto grigio era senza macchia. Non c’era un granello di polvere nemmeno fra i tasti della consolle. L’aria aveva un odore bizzarro. Jase, sconcertato, si scoprì a fare brevi annusate incerte. Chissà che odore era.

Reparto 14BL. Nessun incidente.

Reparto 15AD. Nessun incidente.

Reparto 14CL. Rapporto di incidente, caporeparto P.C. Lawson. Detenuto D186521CL: ustioni superficiali alle mani, provocate da contatto con lo schermo della cella. Curato al reparto F dell’infermeria. Riportato in cella alle 5,47 TMT.

Niente. L’aria riciclata, purificata, non odorava di niente. — Cristo — brontolò Jase, e le dita di Nils si bloccarono sulla tastiera silenziosa.

— Signore?

— Niente. — Batté sulla propria tastiera, esaminò un elenco di ufficiali di sicurezza e di guardie allo scalo per il turno seguente. Poi un rapporto riguardante spaziomobili in arrivo e il loro carico di detenuti. Quindi diede il benestare alla richiesta di due spaziomobili in prossimità della zona L1, e al menù dell’indomani. Poi lesse la relazione di Nils. Niente. Niente.

— Bene. Bene. — Avrebbe voluto dire: sono così stufo che prenderei a morsi il tappeto. Ma di fronte alla frustrazione di Nils sarebbe sembrata crudeltà. Per cui disse invece: — Voglio provare a presentare un’altra richiesta di trasferimento.

L’espressione solitamente seria di Nils si rilassò. — Per dove, stavolta?

— Non lo so. Il polo sud. — Premette il pulsante dei messaggi registrati. Halpren, indicò lo schermo. E di nuovo: Halpren. Poi: UIGLM. - Chi ha chiamato dall’UIGLM?

— Darrel Collins.

— Uhm. Vorrà che mettiamo qualche ergastolano in cella d’isolamento e che gli conficchiamo spilli sotto le unghie per ottenere informazioni. Oppure si tratta di una trappola legale per qualche detenuto temporaneo.

— Perché non glielo chiedete? — suggerì gentilmente Nils, e Jase sorrise.

— Certo che glielo chiederò.

Nilson, anche se aveva terminato il proprio turno, non si mosse. Per un istante l’ambiente rimase tranquillo. Non si accesero spie luminose, non ci furono voci a disturbarlo. Jase si spostò davanti alla propria scrivania, si sedette sul bordo. Nils si allungò contro lo schienale della poltrona ad aria, succhiando un frullato di vitamine. Era un individuo magro, segaligno, rosso di capelli, con la mente concentrata su Averno ventiquattr’ore al giorno. Non capiva la mancanza d’entusiasmo di Jase, ma aveva un genuino rispetto per il suo superiore, e questi si fidava di lui più che di chiunque altro.

— Il polo sud… — mormorò Nils. — Pinguini. Turisti.

— Non capisco perché questo posto ti piaccia tanto.

Nils alzò le spalle. — Non ci sono solo questioni amministrative. Noi siamo la Stazione di Comando di tutte le pattuglie esterne. Credo che mi piaccia premere pulsanti, mandar fuori spaziomobili, farle rientrare con il loro carico di fuorilegge, rispedirle sulla Terra, leggere le relazioni dei processi, riportare indietro i detenuti, rinchiuderli nel posto che spetta loro. Da ragazzo, avevo il banco più ordinato di tutta la scuola. Nella mia collezione di minerali non c’era un granello di polvere. Sotto il mio letto non c’erano mai bioccoli di lanugine.