— Per gente come noi è già duro trovare una soffitta.
— Sidney è una calamita. Lui pensa a quello che vuole trovare, ed è l’oggetto stesso che trova lui.
— Allora sarà un giocatore di poker strepitoso.
Il Mago scoppiò a ridere. — È terribile. Non vuole niente di quello che le carte possono dargli.
— Pensa a quello che vuole… e l’oggetto trova lui?
— Secondo Sidney, sì. Lo conosci. Noi tutti vogliamo fama, denaro, potere… Sidney vuole uno strumento di 900 anni fa che gracida come una raganella. E la vita glielo dà, oltre a fama, denaro, potere…
— C’è una morale, in questo?
— Mi piacerebbe saperlo.
— Perché? Tu cos’è che vuoi, e che non hai avuto?
— Un cambiamento — disse il Mago, semplicemente. — Suoniamo al Constellation Club da cinque anni. Complessi come i Cygnus e gli Alien Shoe fanno tournée spaziali sfruttando solo tre accorai. Anche a me piacerebbero orchidee e alberghi orbitali, per non parlare del denaro. Forse allora avrei una spaziolancia con la ricevente che funziona. — Lanciò un’occhiata cupa al pannello sventrato. Aaron posò la bottiglia vuota e si stiracchiò. — Dimmi se ti serve… — Uno sbadiglio soffocò il resto della frase. Aaron batté vagamente le palpebre alla luce danzante. — Oddio — disse con gratitudine. — Sembra che il sonno stia arrivando, finalmente.
— Vuoi un’altra birra?
Aaron scosse la testa. — Devo andarmene. — Però rimase, accorgendosi solo allora delle sfumature musicali che continuavano a tremolare ai margini del silenzio dentro il Pianto volante. Si girò per fare una domanda e vide che il Mago era già in movimento.
Aveva fatto ruotare il sedile, e muoveva le dita secondo uno schema ben preciso lungo la fila di pulsanti luminosi accanto al pannello di comando. Il pannello si aprì mettendo in mostra un’antiquata tastiera bianca e nera. Il Mago sfiorò alcuni tasti. Un riflettore sopra il portello principale ruotò lentamente per intercettare la luce.
Aaron sorrise, sia al grazioso sincronismo fra meccanismo e musica, sia all’imperturbabile soddisfazione del Mago per la propria opera. Il Mago staccò la tastiera dalla corrente della lancia e diede un’occhiata ad Aaron, come se ne approvasse il pensiero. Poi distolse completamente l’attenzione dal mondo circostante. Acquistò un’espressione distaccata, contemplativa. Allungò le mani a caso sui tasti, modellò lentamente i suoni in qualcosa di più complesso, più elegante, e -sospettò Aaron — di qualche secolo più vecchio del GLM. Per un istante la mente affaticata del poliziotto provò un po’ di sollievo, e persino il tozzo e ammaccato veicolo spaziale acquistò dignità sotto l’incantesimo del Mago.
Aaron se ne andò, e il Mago suonava ancora.
Quando Aaron si svegliò, a metà pomeriggio, nel cielo si addensava una nebbia estiva.
Il poliziotto la stava guardando mentre si vestiva. Abitava più in alto della città vera e propria, in uno dei giganteschi ghetti del GLM che come ragni alieni sovrastavano gli edifici più bassi; gli archi si intersecavano e si appoggiavano l’uno all’altro per resistere ai terremoti, e la loro sagoma agile occupava cielo, anziché terra. Aaron aveva una stanzetta vicino alla sommità di un arco. Non conteneva molto, oltre al letto e a un computer di dotazione governativa. Era rivolta a occidente; nelle serate calde lui poteva guardare l’orizzonte risplendere di bizzarri colori mentre il sole tramontava dietro la caligine prodotta dalle fabbriche marine. Il Settore Costadoro era largo 500 chilometri e lungo 1500. La parte settentrionale, in cui Aaron viveva, era infestata dal testardo fantasma dei tempi pre-GLM, diventato estremamente elusivo nel volgere di un secolo. Ma persino Aaron, scarsamente dotato d’immaginazione, riusciva a percepirlo di tanto in tanto nel sospiro della marea, nella nebbia silenziosa che si librava lungo antiche strade che portavano sempre al mare.
Ora la nebbia ondeggiava come piuma attraverso gli immensi archi dei ghetti. Aaron la guardava distrattamente, e i suoi occhi ne riflettevano il colore smorto. D’improvviso si girò, con un movimento vivace e aggraziato, staccandosi dalla nebbia, negando con il corpo il silenzio gelido che gli vagava nella testa.
Mancavano tre ore all’inizio del turno di notte. Aaron si calò nel cielo lattiginoso. Gli piaceva volare velocemente; aveva inseguito delinquenti e guidatori ubriachi fino al limite gravitazionale e li aveva riportati indietro sotto lune luminose, cieli stellati da capogiro. Ma la pallida coltre di nebbia che saliva dal mare tramutava la lunga sera estiva in una confusione amorfa di bianco e d’ombra. Attorno a lui il traffico aereo scorreva con cautela, lente gocce di luce indistinta. Si innalzò ancora e il mondo in cui abitava svanì.
Un’unica sirena ruggì come un dinosauro nella nebbia. Era antiquata, tenuta in funzione solo da un’interminabile disputa fra la burocrazia del Settore e quella del GLM. Si diceva che annunciasse navi fantasma, vite che scaturivano dall’acqua salmastra di tempi andati. Lanciò ad Aaron avvertimenti sempre più fiochi, anche se egualmente indispensabili, mentre lui volava verso occidente. Aaron atterrò finalmente sopra un promontorio e uscì. I frangiflutti davanti alle fabbriche marine e agli impianti di depurazione avevano smorzato le ondate, ma l’oceano poteva ancora intrecciare un’aspra frusta di vento e spuma. Aaron rimase qualche istante a gustare il freddo, insensibile al suo morso. Aguzzò gli occhi in cerca di vele marcite, di scafi arrugginiti. Ma i fantasmi rimasero nascosti sotto la superficie del mare.
Si girò, si diresse a una botola e sparì nel sottosuolo. La scogliera gli sembrava un luogo ridicolo per costruirvi un rifugio antiatomico, ma un centinaio d’anni prima doveva esserci stato più terreno fra il rifugio e il mare. Ancora poche stagioni piovose, e il restante cuneo di terra, rifugio compreso, sarebbe stato trascinato in mare. Ma per il momento gli tornava comodo.
Uno schermo accessorio si aprì al suono della sua voce e fece scattare le luci nel soffitto. Entrando, Aaron notò sulla consolle una spia intermittente che segnalava la presenza di messaggi. Prese un tramezzino dal congelatore, lo mise nel forno a microonde, poi lesse i messaggi.
C’erano due rapporti: uno dal Settore Costa Orientale, e uno dalle colonie sugli asteroidi. Lesse per primo il messaggio delle colonie.
Esaminò in silenzio l’elenco dei recenti aspiranti ai vari posti di lavoro nelle colonie. Sette avevano compiuto il lungo viaggio dalla Terra, 80 erano stati rifiutati. I motivi del rifiuto erano in teoria informazioni confidenziali, ma agli occhi del GLM un cittadino che chiedeva riserbo probabilmente stava combinando qualcosa. Aaron aveva mascherato il proprio istinto profondo di conservare una personale vita privata con l’uniforme da dipendente governativo. Nessuno gli poneva domande, e lui aveva accesso a una quantità infinita di informazioni riservate.
Età, descrizione fisica, esperienze di lavoro, retroterra familiare, profilo medico e psicologico: esaminò le schede di 87 estranei, poi si appoggiò allo schienale con un sospiro. Niente. La donna non si trovava nelle colonie minerarie, e nemmeno aveva fatto domanda per andarci. Il tramezzino era ancora freddo, nel forno a microonde, ma almeno si era scongelato. Lo mangiò meccanicamente.
Poi chiamò Raymond Takuda, il capo della polizia del Settore Costa Orientale.
— Lascia perdere, Aaron — brontolò Takuda. Aveva il viso segnato, duro, lustro come legno di noce, dopo mezzo secolo di servizio. — Hai seguito quella teoria di un complotto per anni, senza il minimo risultato.
— Non posso lasciar perdere — mentì Aaron. — Ho sempre l’incarico. E poi, la donna non è stata ancora ritrovata.
— Forse ha cambiato sesso. Forse è morta.
— Ho controllato le registrazioni di ospedali e obitori di tutto il mondo.