«Mi hai rovinato il mio incubo» disse Kaldor con un sospiro. Poi si illuminò. «Però molte volte non si conoscono nemmeno le parole chiave.
Quante volte mi è capitato di scoprire una cosa che non sapevo mi servisse! Solo dopo averla trovata mi sono reso conto che poteva essermi utile.»
«Questo significa che sei molto male organizzato» fece il tenente LeRoy.
I due apprezzavano molto questi battibecchi, e Mirissa non sapeva bene quando prenderli sul serio. Joan e Moses non cercavano deliberatamente di escluderla dalla conversazione, ma ciò di cui solitamente parlavano era così lontano dalla sua esperienza che certe volte aveva l’impressione di sentir parlare in una lingua sconosciuta.
«Comunque, ora l’Indice Generale è completato. Adesso sappiamo cosa abbiamo noi e cosa avete voi; resta solo — solo! — da decidere cosa vogliamo trasferire e cosa no. Sarebbe troppo scomodo, per non dire costoso, farlo quando saremo lontani settantacinque anni luce.»
«Il che mi fa venire in mente una cosa» intervenne Mirissa. «Forse faccio male a dirvelo, ma la settimana scorsa è venuta qui una delegazione dell’Isola Settentrionale. Erano il presidente dell’Accademia delle Scienze e due fisici.»
«Fammi indovinare. Il motore quantico.»
«Esatto.»
«Come hanno reagito?»
«Mi sono sembrati soddisfatti… e sorpresi, anche. Non si aspettavano di trovare che i dati c’erano davvero. Ne hanno fatto una copia, naturalmente.»
«Buona fortuna a loro; ne avranno bisogno. Puoi anche dir loro questo.
Non so più chi ha affermato che la reale funzione del motore quantico non è una cosa banale come il viaggio interstellare. Avremo bisogno dell’energia del motore quantico per impedire all’universo di collassare fino a riformare il buco nero primordiale… iniziando così un nuovo ciclo di esistenza.»
Cadde un riverente silenzio. Quindi Joan LeRoy ruppe l’incantesimo.
«Ciò non avverrà certo nel corso di questa amministrazione. Torniamo al lavoro. Abbiamo ancora parecchi megabyte da fare prima di andare a dormire.»
Ma non c’era il lavoro soltanto. Certe volte Kaldor si allontanava dalla biblioteca del Primo Atterraggio per svagarsi un po’. Faceva allora un giro per la galleria d’arte, oppure una visita guidata — dal computer — della Nave Madre (cambiando ogni volta itinerario per vedere quante più cose possibili), o andava a ritroso nel tempo visitando il museo.
C’era sempre una lunga fila davanti al padiglione della Terra. Moses Kaldor si sentiva a volte un po’ colpevole perché ricorreva alla sua posizione di privilegio per passare davanti a tutti. Si consolava dicendosi che i Thalassani avevano tutta la vita per ammirare i panorami di un mondo che non avevano mai conosciuto; lui invece disponeva di qualche mese soltanto in cui poter rivedere la patria perduta.
Incontrò molte difficoltà a convincere gli amici che lui, Moses Kaldor, non aveva mai visto i luoghi di cui talvolta ammiravano insieme le riproduzioni. Tutto ciò che si vedeva risaliva ad almeno ottocento anni prima della nascita di Kaldor, perché la Nave Madre aveva lasciato la Terra nel 2751, e Kaldor era nato nel 3541. Eppure certe volte sentiva un tuffo al cuore, e i ricordi l’assalivano con forza quasi insopportabile.
Tra le scene che maggiormente lo turbavano vi era quella intitolata «Caffè all’aperto». Ci si sedeva a un tavolino, sotto una pergola, bevendo vino o caffè mentre la vita della città scorreva proprio lì accanto. Fin quando restava seduto non c’era assolutamente modo di riconoscere la finzione dalla realtà.
Le grandi città della Terra erano in quel padiglione come restituite alla vita. Roma, Parigi, Londra, New York… d’estate e d’inverno, di notte e di giorno, osservava turisti e commercianti e studenti e innamorati andare ciascuno per la propria strada. Spesso costoro si accorgevano di venir ripresi, e allora gli sorridevano attraverso i secoli, e non rispondere era impossibile.
In altre scene non c’era invece nessuno; anche i manufatti dell’uomo erano assenti. Moses Kaldor poteva allora guardare, così come aveva fatto in quella sua altra vita, l’acqua vaporizzata delle cascate Vittoria, o la luna che sorgeva sopra il Grand Canyon, le nevi dell’Himalaya, le montagne di ghiaccio dell’Antartico. A differenza delle città, questi panorami non erano cambiati da mille anni a questa parte. E sebbene già esistessero prima dell’Uomo, non gli erano sopravvissuti.
28. La foresta sommersa
Lo scorpione di mare pareva non aver fretta; la prese con comodo, tanto che gli ci vollero dieci giorni per percorrere cinquanta chilometri. Quasi subito la piccola emittente sonar che era stata assicurata — non senza difficoltà — al carapace dell’animale infuriato rivelò una cosa strana. Lo scorpione si muoveva sul fondo del mare in modo perfettamente rettilineo, come se sapesse benissimo dove aveva intenzione di andare.
Parve evidente che avesse raggiunto la sua destinazione — qualunque essa fosse — a duecentocinquanta metri di profondità. Poi lo scorpione continuò a muoversi, ma sempre aggirandosi in un’area molto ristretta. Ciò per altri due giorni dopo di che il segnale cessò all’improvviso.
Che lo scorpione fosse stato divorato da qualche altro animale ancora più grosso e più feroce era una spiegazione troppo semplicistica. La trasmittente era racchiusa entro un solido cilindro di metallo; denti, zanne e tentacoli — per quanto poderosi — avrebbero impiegato almeno qualche minuto per romperlo, e inoltre l’apparecchio avrebbe continuato tranquillamente a funzionare se qualche grosso animale l’avesse inghiottito intero.
Rimanevano dunque due sole possibilità, la prima delle quali fu respinta con indignazione dal personale del Laboratorio Subacqueo dell’Isola Settentrionale.
«Ogni singolo componente aveva un suo duplicato» disse il direttore.
«Inoltre, abbiamo ricevuto l’impulso diagnostico soltanto due secondi prima dell’interruzione del segnale, e tutto era normale. Quindi è escluso che si tratti di un guasto.»
Rimaneva allora soltanto l’altra spiegazione, quella impossibile.
L’emittente era stata spenta. E per far questo bisognava aprire una serratura.
Una serratura non si apre per caso; accade forse per caso se ci si traffica intorno, ma normalmente si apre solo quando qualcuno la vuole aprire.
La Calypso, un venti metri a due scafi paralleli, era non solo la più grande, ma anche l’unica nave oceanografica di Thalassa. Di solito stava alla fonda sull’Isola Settentrionale, e ciò diede a Loren occasione di notare gli amichevoli sfottimenti tra il personale scientifico della nave e gli ospiti di Tarna, che venivano considerati alla stregua di ignoranti pescatori. Dal canto loro, quelli dell’Isola Meridionale coglievano ogni occasione per vantarsi di essere loro quelli che avevano scoperto lo scorpione di mare.
Loren non si prese la briga di far osservare che la verità era un’altra.
Fu un piccolo trauma rivedere Brant, anche se Loren avrebbe dovuto aspettarselo, in quanto sapeva che Brant si era occupato dell’equipaggiamento della nave. Si salutarono con fredda cortesia, senza badare agli sguardi curiosi o divertiti degli altri passeggeri. C’erano ben pochi segreti su Thalassa; ormai tutti sapevano chi occupava la miglior camera degli ospiti di casa Leonidas.
L’apparecchiatura pronta sul ponte di poppa sarebbe stata familiare a ogni oceanografo degli ultimi duemila anni. Era costituita da un telaio di metallo sul quale erano assicurate tre telecamere, un cestello di filo metallico in cui mettere i campioni raccolti dal braccio meccanico a controllo telecomandato e alcuni idrogetti che permettevano di spostarsi in ogni direzione. Una volta calata in acqua, l’apparecchiatura inviava immagini e dati alla nave attraverso fibre ottiche il cui spessore complessivo non superava quello di una mina da matita. La tecnologia era vecchia di secoli, ma ancora perfettamente all’altezza.