Il tenente scherzava soltanto a metà. Aveva letto da qualche parte che gli eterosessuali al cento per cento erano così rari da venire considerati casi patologici. Non che ne fosse davvero convinto; però la cosa lo preoccupava un poco nelle rare occasioni in cui gli veniva da pensare alla questione.
Ora Loren era l’unico degente, e inoltre aveva convinto l’infermiera thalassana che la sua presenza non era affatto necessaria — almeno quando Mirissa andava a trovarlo, cosa che avveniva tutti i giorni. L’ufficiale medico Newton, che come molti medici certe volte era di una franchezza imbarazzante, gli aveva detto senza mezzi termini: «Lei ha bisogno di un’altra settimana di convalescenza. Se proprio deve fare l’amore, allora lasci che sia la sua partner a darsi da fare».
Riceveva anche altri visitatori, naturalmente. Erano tutti i benvenuti, tranne due.
La Waldron, essendo sindaco, faceva quel che voleva infischiandosene dell’infermiera e veniva a trovarlo quando meglio le pareva; per fortuna le sue visite non coincisero mai con quelle di Mirissa. La prima volta che la Waldron andò a trovarlo, Loren si finse moribondo: tattica disastrosa, perché gli impedì di evitare certe carezze veramente audaci. La seconda volta, fortunatamente aveva avuto un preavviso di una decina di minuti, il sindaco lo trovò seduto sul letto sostenuto dai cuscini e perfettamente in sé. Purtroppo, per una bizzarra coincidenza, era in corso un complicato test della respirazione, così che il tubo dell’aria che Loren doveva tenere in bocca rese impossibile ogni tentativo di conversazione. Il test ebbe termine trenta secondi dopo che il sindaco si fu congedato.
Brant Falconer venne a trovarlo una volta soltanto, e quell’unica visita fu penosa per entrambi. Conversarono educatamente degli scorpioni di mare, dei progressi dell’impianto di produzione dei fiocchi di neve, della politica dell’Isola Settentrionale… di tutto, insomma, tranne che di Mirissa. Loren capì che Brant era poco disinvolto e anche impacciato, ma l’ultima cosa che si aspettava era che Brant gli porgesse delle scuse. Il visitatore riuscì a farsi uscire qualche parola di bocca, prima di congedarsi.
«Sai, Loren,» disse con riluttanza «non ho potuto far di meglio con quell’onda. Se non avessi cambiato rotta, saremmo andati a sbattere contro la secca. Peccato che la Calypso non è riuscita ad arrivare in tempo dove l’acqua è più profonda.»
«Sono sicuro» disse Loren, ed era sincero «che nessuno avrebbe potuto far di meglio.»
«Ehm… mi fa piacere che la pensi così.»
Brant era ora evidentemente più sollevato, e Loren sentì per lui un improvvisa ondata di simpatia, e anche di compassione. Forse qualcuno aveva messo in dubbio la sua abilità di marinaio; per un individuo orgoglioso come Brant ciò era intollerabile.
«Ho saputo che avete recuperato la sonda sottomarina.»
«Sì… Presto l’avremo riparata, e tornerà come nuova.»
«Un po’ come me.»
Nel breve attimo di cameratismo nato dalla risata comune, a Loren d’un tratto venne in mente una cosa.
Chissà se Brant, si chiese, avrebbe preferito che Kumar si fosse mostrato un po’ meno coraggioso?
36. Kilimangiaro
Perché aveva sognato il Kilimangiaro?
Che strana parola; un toponimo, sicuramente, ma di quale luogo?
Moses Kaldor, sdraiato nella grigia alba di Thalassa, ascoltò i rumori di Tarna che un poco alla volta si risvegliava. Non che si sentisse molto a quell’ora; un gatto della sabbia ronzava da qualche parte diretto alla spiaggia, forse per andare a prendere un pescatore che ritornava.
Kilimangiaro.
Kaldor non era uomo da darsi delle arie, però dubitava che esistesse qualcun altro al mondo che avesse letto più libri antichi di lui su tanti argomenti diversi. Inoltre si era fatto fare a suo tempo un trapianto di memoria della capacità di parecchi terabyte, e anche se le informazioni immagazzinate in quel modo non erano propriamente conoscenza, si trattava pur sempre di dati a disposizione se si era in grado di ricordare i codici di controllo.
Era forse un po’ troppo presto per fare quello sforzo, e poi probabilmente si trattava di cosa di scarsa importanza. Eppure Kaldor aveva imparato a non trascurare i sogni; il buon vecchio Freud aveva detto al proposito alcune cose molto significative, duemila anni prima. E comunque ormai non si sarebbe più riaddormentato…
Chiuse gli occhi, diede il comando RICERCA e attese. Era solo questione di immaginazione, lo sapeva — il processo avveniva a un livello del tutto inconscio — eppure aveva l’impressione di vedere i byte che a migliaia scorrevano velocissimi in qualche angolo riposto del suo cervello.
Ora qualcosa stava accadendo ai fosfeni che perpetuamente danzano formando disegni casuali sulla retina quando si chiude l’occhio stringendo forte le palpebre. In quel caos debolmente luminescente era apparsa una finestra più scura dove si formavano delle lettere — ed ecco una scritta:
KILIMANGIARO: montagna vulcanica, Africa. Alt. 5900 m.
Sede del primo Ascensore Spaziale Terra — Terminus.
E questo cosa significava? Lasciò che la mente facesse quel che voleva con quella scarna informazione.
Aveva forse qualcosa a che fare con quell’altro vulcano, il Krakan, cui recentemente aveva pensato parecchio? Il collegamento era un po’ stiracchiato. E sapeva benissimo che il Krakan, o il Piccolo Krakan, potevano entrare in eruzione un’altra volta.
Il primo Ascensore Spaziale? Si trattava di storia davvero antica; era stato un avvenimento, quello, che aveva segnato l’inizio della colonizzazione planetaria; da quel momento l’umanità aveva avuto in pratica libero accesso al Sistema Solare. E ancora oggi s’impiegava la stessa tecnologia, ricorrendo a cavi di materiale ultraresistente per sollevare i grandi blocchi di ghiaccio fino alla Magellano, in orbita stazionaria sopra l’equatore.
Eppure, il collegamento con la montagna africana restava debolissimo.
La relazione era troppo remota; la risposta, Kaldor ne era certo, doveva essere un’altra.
L’approccio diretto era fallito. L’unico modo per trovare il collegamento era di lasciare libero gioco al caso e al tempo e ai misteriosi meccanismi dell’inconscio.
Avrebbe cercato di non pensare più al Kilimangiaro fin quando quell’immagine non avrebbe ritenuto opportuno ripresentarglisi alla mente.
37. In vino veritas
Dopo Mirissa, il visitatore che Loren accoglieva più volentieri — e il più assiduo — era Kumar. Malgrado il soprannome, a Loren faceva l’effetto più di un cane fedele, o meglio, di un cucciolo molto socievole, che di un leone. A Tarna c’erano una decina di cani — tutti molto viziati — e chissà che un giorno non avrebbero potuto rivivere anche su Sagan Due, riprendendo la lunga frequentazione con l’uomo.
Loren ora sapeva che rischio aveva corso Kumar gettandosi in quel mare tumultuoso. Fortunatamente per entrambi, Kumar non lasciava mai la terraferma senza un coltello assicurato alla gamba; e anche con il coltello era dovuto rimanere sott’acqua più di tre minuti per tagliare il cavo che si era aggrovigliato attorno a Loren. Quelli della Calypso avevano creduto che fossero annegati entrambi.
Malgrado il legame che ora li univa, Loren incontrava delle difficoltà a far conversazione con Kumar. In fin dei conti, esisteva soltanto uno scarso numero di modi in cui poter dire «Grazie per avermi salvato la vita», e la loro cultura era così profondamente dissimile che il terreno comune era estremamente limitato. Se parlava con Kumar della Terra o dell’astronave, ogni cosa gli andava spiegata nei più minuti e tediosi particolari; e in breve Loren si rese conto che stava perdendo tempo. A differenza di sua sorella, Kumar viveva nel mondo dell’esperienza immediata; gli interessava solo il momento presente. «Come lo invidio!» aveva detto una volta Kaldor. «È un essere totalmente calato nell’oggi, un essere che non è né ossessionato dal passato né timoroso del futuro!»